L'intervista

domenica 20 Agosto, 2023

«L’altro Ermanno: un’anima delicata». Il ricordo dell’alpinista nelle parole di Mattia Fabris

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Il ricordo dell’ amico attore: «Perdo un amico. Il Cerro Torre? Il suo gioco preferito, fino all’ultimo»

Uno alpinista, l’altro attore. Attraverso la parola, nella potenza del racconto, c’è stato un momento in cui la vita di Ermanno Salvaterra e Mattia Fabris si sono intrecciate. Da un rapporto all’origine professionale – per la curatela dell’ultimo libro dello scalatore trentino, «Patagonia, il grande sogno» (2021) – è nata un’amicizia. Che agli occhi di Fabris ha svelato un altro Salvaterra. «Un Ermanno delicato, curioso, disponibile. Incantato dalla bellezza», ricorda l’autore e interprete (insieme a Jacopo Bicocchi) dello spettacolo «Slegati», nato dalla storia degli alpinisti Joe Simpson e Simon Yates e portato in tournée nei rifugi.
Fabris, come ha conosciuto Salvaterra?
«Ho conosciuto Ermanno perché mi è stato chiesto di curare il suo ultimo libro. Ci siamo incontrati a Milano per parlare di come impostare il progetto, era il 2019. Un incontro per me completamente sorprendente. Da attore mi ritrovo spesso a parlare di montagna. Ma prima sapevo poco o nulla di lui. Nei mesi successivi, abbeverarsi delle sue storie è stato meraviglioso. Per me è nata un’amicizia importante».
Al dì là dell’alpinista che in tanti ricordano in queste ore per la caparbietà e le imprese uniche messe a segno, che persona era Ermanno Salvaterra?
«Io ho conosciuto un suo lato che forse i suoi compagni non hanno visto. Un Ermanno delicato, curioso, disponibile. Incantato dalla bellezza. Che poi è quello che abbiamo raccontato tra le pagine del libro. In montagna, con gli altri scalatori, doveva essere duro e irrefrenabile nella voglia di salire. Ma in realtà aveva un animo vasto e uno sguardo candido sulla montagna».
Cosa intende?
«Tutti gli alpinisti sono accomunati dal perdurare immutato di questa passione. Ma Salvaterra aveva conservato come un bambino interiore. La montagna era la sua stanza dei giochi. E il Cerro Torre era il suo gioco preferito, anche se ultimamente aveva un progetto sulla Torre Egger. Nel momento dell’anno in cui comprava il biglietto per la Patagonia, cominciava ad essere felice. Lì è arrivato una vita fa, quando ancora non c’era nulla».
In questi anni avete sviscerato, per raccontarle, le sue avventure e la sua passione per la montagna. Qual era per lui il senso dell’alpinismo?
«Abbiamo parlato molto di questo. Sembra banale, ma lui scalava perché si divertiva. Non gli interessava nient’altro dell’arrampicata. Non gli importava dei gradi, delle difficoltà, di chi aveva fatto cosa. Stava lontano dalla performatività del mondo moderno. Aveva l’ambizione di scalare perché questo lo divertiva. Dietro il divertimento c’era senz’altro la ricerca di sé. Quando si compiono imprese così ardite, la natura diventa uno specchio. E più si sale, più si scende dentro di sé».
Scrive ad un certo punto nel libro: «La Patagonia e le sue montagne sono, sono state e saranno il luogo dove più d’ogni altro ho incontrato la bellezza». Che cosa intendeva?
«Per lui il bello credo che contenesse qualcosa di misterioso. E a mio avviso lui era un uomo capace di partecipare a quel mistero, sentirlo, riconoscerlo guardando l’immensità della natura. Come quando è arrivato in vetta al Cerro Torre per la prima volta».
E con la parola, con il racconto, con il teatro, che rapporto aveva?
«A teatro veniva vedermi sempre. Aveva una grande capacità di incantarsi. Scrivere con lui è stato bello. Il mio lavoro è sviscerare, tradurre in maniera universale le esperienze di valore, quelle che contengono significati e sensi. La sua storia personale conteneva tratti universali. Con lui li abbiamo cercati e abbiamo trovato elementi che parlano della storia dell’essere umano. Per lui è stato importante indagare la sua stessa storia».
C’è un episodio in sua compagnia che ricorda e che racconta chie era Salvaterra?
«La prima volta che sono stato a casa sua sono rimasto incantato. La sua casa è in mezzo al bosco. Quando sono arrivato, ho visto che aveva cani, gatti, sul davanzale posati i semi per gli uccellini e le noccioline per gli scoiattoli, in un altro punto la mangiatoia per i caprioli. Lì ho percepito la sua essenza di amante della natura».
L’ultimo incontro?
«L’ho visto tre mesi fa per un incontro sulla montagna e l’inclusione, al Brenta Open. Era un uomo che non si sottraeva, e stava in mezzo alle difficoltà».