L'intervista

domenica 26 Maggio, 2024

Il premio Nobel Spence: «In dieci anni le nuove tecnologie rivoluzioneranno il mondo»

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Il professore è stato ospite del Festival dell'Economia: «Draghi leader in Europa? Spetta a lui, il suo ultimo articolo mi è piaciuto»
Michael Spence, premio nobel per l'economia 2001 (Alberto Gandolfo LaPresse) (1)

La prima metà della storia è che «nel 2024 abbiamo registrato una crescita più lenta». E questa situazione «si protrarrà almeno fino a quando l’inflazione non sarà riabbassata». Non durerà per sempre. «In un orizzonte temporale di cinque anni e oltre potremmo trovarci in un mondo molto diverso da quello che conosciamo». La trasformazione è già in corso, ma per Michael Spence, premio Nobel per l’Economia nel 2001 e professore a Stanford e alla Bocconi, l’esito definitivo del cambiamento non si vedrà definitivamente oggi, e neanche l’anno prossimo. «Entro la fine di questo decennio, potremmo avere una situazione totalmente diversa grazie alla diffusione delle nuove tecnologie. Il digitale influenzerà tutto, anche le scienze biomediche e della vita», spiega l’economista. Un tema che affronta anche nell’ultimo libro, «Permacrisi. Un piano per riparare un mondo a pezzi», scritto con Gordon Brown e Mohamed El-Erian (Simon & Schuster Ltd). «Non possiamo illuderci di vivere ancora con le economie che avevamo nel Duemila. Ora ci aspetta un periodo di incertezza e di volatilità».
Spence, che cosa sono le «permacrisi» di cui parlerà al Festival dell’economia di Trento?
«Viviamo in una situazione in cui convivono crescenti tensioni geopolitiche, il calo della produttività, l’invecchiamento demografico, i grandi cambiamenti nei mercati del lavoro, la carenza di manodopera, l’inflazione e i tassi d’interesse alle stelle, dopo un decennio in cui i tassi d’interesse sono stati praticamente pari a zero. Ci troviamo nella situazione in cui più di una generazione ha una mentalità adattata su un altro mondo. Ma in questo frangente si possono commettere errori di ogni tipo, dalla politica all’economia alla finanza. In questo contesto stanno avvenendo enormi trasformazioni tecnologiche e scientifiche. La trasformazione digitale, accelerata negli ultimi due anni, e quella – meno discussa ma probabilmente a lungo termine altrettanto importante – delle scienze biomediche e della vita. Il motivo per cui abbiamo scritto il libro è che ciò a cui stiamo assistendo è fondamentalmente la collisione di tutte queste situazioni. Vogliamo rendere più facile la comprensione di ciò che sta accadendo. E, dal momento che non ci piacciono alcune delle traiettorie intraprese, vogliamo suggerire direzioni che produrrebbero miglioramenti positivi. A me interessa in particolar modo il potenziale delle tecnologie e l’impatto positivo che possono avere innovazioni come l’AI».
Quali ruoli vede per l’Italia e per l’Europa in questo solco?
«Credo che per tutti i Paesi europei, compresa l’Italia, la grande opportunità risieda nell’agire insieme. Per realizzare trasformazioni produttive di successo sono necessari investimenti molto elevati, in beni immateriali e infrastrutture. Farlo insieme è meglio che farlo da soli. Condivido la direzione auspicata da Mario Draghi per l’Unione Europea, un cambiamento radicale».
Lei vorrebbe vedere Draghi in un qualche ruolo di leadership a livello europeo?
«Spetta a Draghi decidere con i suoi colleghi dell’Ue. Ho pensato che il suo articolo sull’Economist dello scorso giugno fosse un importante punto di partenza».
Quale traiettoria dovrebbe seguire l’idea di un agire più comune del’Ue?
«Per esempio, penso che ci sia bisogno di un grande sistema di cloud computing sovranazionale, in Europa. Ma anche di rinvigorire gli ecosistemi imprenditoriali. Con le nuove tecnologie è un periodo di intensa esplorazione e sperimentazione. Sono molti gli imprenditori che stanno creando startup e alcune grandi aziende che investono miliardi di dollari o di euro in questo settore. Ma l’occupazione in Europa è particolarmente elevata nelle piccole imprese e l’agenda politica rischia di lasciarle indietro. Le politiche devono assicurare che le rivoluzioni tecnologiche si diffondano nell’economia in modo inclusivo, anche tra le imprese più piccole. James Manyika e io abbiamo scritto un articolo su Foreign Affairs in cui affermiamo che, nonostante il potenziale di queste tecnologie – come il miglioramento della produttività, delle prestazioni nel campo della sanità, dell’istruzione, della scienza – esiste un enorme pregiudizio sul loro conto. La gente pensa che le macchine rimpiazzeranno le persone. Non è così. Il digitale darà supporto all’essere umano».
La rivoluzione tecnologica, se non gestita, può accentuare gli squilibri economici e sociali?
«Tutte le tecnologie hanno rischi negativi associati a un uso improprio. In questo caso, il rischio più estremo che vedo è lo sviluppo di armi completamente autonome. Per questo serve subito lavorare a un trattato internazionale che le vieti».
La cooperazione internazionale sta attraversando un periodo di crisi. Lo dimostrerebbero i crescenti squilibri economici e sociali, le guerre e gli ostacoli al libero commercio. Qual è il suo punto di vista?
«Questa è una sfida davvero grande. È vero, oggi la cooperazione internazionale non funziona molto bene: c’è frammentazione, nazionalismo, unilateralismo, che non aiutano. Anche i dazi sul commercio si sono spinti un po’ troppo oltre. Non torneremo al mondo in cui l’economia globale era costruita quasi interamente su concetti di efficienza e vantaggio comparato. La sfida è non andare nel senso opposto».
L’interruzione delle catene globali del valore e le tensioni geopolitiche hanno portato al crollo della fiducia tra Stati, con l’effetto che le spese militari sono in aumento. Quali sono le implicazioni per l’economia?
«Dopo la fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti si sono assunti la maggior parte dell’onere delle spese militari. Ma ora non sono più in grado di farlo. Ci sono guerre in Europa. Ora probabilmente è arrivato il momento di aumentare le spese per la difesa. Sta già accadendo. Non si tratta di un’impresa a costo zero. Se le si guarda da un punto di vista storico, le spese in difesa hanno conseguenze negative: utilizzano risorse che potrebbero essere spese meglio per qualcos’altro. Istruzione, sanità, ricerca. Al tempo stesso, però, facilitano investimenti e nuove scoperte in ambito tecnologico. Questo non compensa completamente i costi, ma è almeno una compensazione parziale».
A novembre gli Stati Uniti vanno al voto. Quali fattori incideranno sul voto?
«L’economia americana sta andando piuttosto bene, ma l’amministrazione di Joe Biden non sta cavalcando questo aspetto e non sembra ricevere molto riconoscimento per questo. Io gli riconosco il merito di aver fatto investimenti a lungo termine che torneranno utili: nelle infrastrutture, nel contenimento dell’inflazione, nei chip e nella scienza. Eppure, tutte queste importanti iniziative potrebbero venire ignorate. Credo che gli storici saranno più clementi con Biden di quanto non sarà la popolazione americana. L’attacco principale al presidente attuale, nelle prossime elezioni, sarà l’età. La generazione più giovane è irritata dalla situazione in Palestina. Per una buona ragione, aggiungerei: è una situazione atroce. E ha messo l’amministrazione Biden in una posizione molto difficile. Altri temi che orienteranno il voto saranno l’aborto e l’immigrazione».
A livello economico quali prospettive vede per l’Ue?
«L’Europa, a mio avviso, non sta dando risultati all’altezza del suo potenziale. Le ragioni sono molteplici. Ma credo che una di queste sia la scarsità di investimenti in fattori che, a lungo termine, generano cambiamenti strutturali positivi, crescita e opportunità. Servono investimenti per trattenere i giovani, soprattutto i più creativi. La Cina è in difficoltà, ma dispone di un immenso capitale umano. I talenti saranno in grado di risolvere i problemi creati dalla bolla immobiliare. E poi c’è l’India: il Pil sta crescendo con ritmi del 7% all’anno. Se continuerà così, entro la fine del decennio supererà la Germania e il Regno Unito e diventerà la terza economia del mondo».