I dati

martedì 21 Marzo, 2023

Il lento declino delle cave: porfido dimezzato in vent’anni

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La produzione è passata da 1,4 milioni di tonnellate a meno di 650 mila. Pesa la concorrenza extraeuropea

Secondo i dati Ispat, negli ultimi 20 anni la produzione di porfido si è dimezzata, passando da 1 milione e 466mila tonnellate a 636mila. Simone Caresia, presidente della sezione del settore estrattivo di Confindustria Trento, spiega che questo declino è dovuto principalmente a due fattori: la crisi dell’edilizia del 2009-10 e la concorrenza estera, con l’entrata di prodotti importati da Cina, India, e Sudamerica.

Allo stesso tempo, il valore unitario del porfido è cresciuto: il porfido grezzo, ad esempio, negli anni è salito a 58,29 euro a tonnellata. Caresia fa notare che, dal 2010, il settore si è riorganizzato e ha iniziato ad investire molto di più sia sulla qualità (e sui servizi) che sulla quantità. Considerando anche il quadro attuale, quindi, quali sono le prospettive future della produzione del porfido? «Osservando i dati, negli ultimi 5-6 anni il calo delle quantità prodotte è giunto ad un livello stabile. Da qui, dunque, non si può che costruire un percorso che aumenti ulteriormente il valore aggiunto dei prodotti».
In futuro, quindi, si estrarrà sempre di meno e, grazie alla tecnologia, si riuscirà ad ottenere un valore aggiunto superiore e a sfruttare meglio i materiali. Caresia sottolinea anche un’importante evoluzione verificatasi nel settore negli ultimi 10-15 anni: «Prima, i materiali di recupero erano visti come un problema, come un costo. Ora, invece, gli scarti si usano al 100% e sono tra le risorse più importanti, almeno nel Nord Italia: quelli che prima erano sottoprodotti stanno diventando prodotti trainanti, e fondamentali nell’edilizia e nei trasporti».

Il report dell’Ispat mostra anche il forte declino registrato nel numero degli addetti del comparto, scesi da 1.253 a 489 nel giro di vent’anni. «Questa riduzione così massiccia ha avuto un impatto notevole sul tessuto economico della zona, generando anche alcuni problemi sociali», considera Giampaolo Mastrogiuseppe, segretario di Fillea del Trentino. In tema di lavoratori, poi, il segretario sottolinea l’enorme gap esistente nel settore tra le retribuzioni a livello nazionale e a livello provinciale. «Per questo, a breve chiederemo la riapertura del contratto collettivo provinciale del settore, che avevamo sospeso fino ad aprile perché aspettavamo la chiusura del contratto collettivo nazionale». Inoltre, aggiunge il sindacalista, saranno necessari «ragionamenti seri» con Confindustria, con gli Artigiani e con il mondo delle cooperative. «Bisogna restituire dignità al potere d’acquisto delle retribuzioni, che in questo settore sono davvero basse, ai minimi tabellari del contratto collettivo», aggiunge il segretario di Fillea. «Se non ci fossero gli integrativi provinciali, le indennità istituite a livello provinciale, e se alcuni lavoratori non aderissero al cottimo di qualità, si ritroverebbero con retribuzioni non adeguate ad uno dei lavori più duri in Trentino».

C’è poi la questione della revoca delle concessioni, a causa della quale «rischiano di rimanere senza lavoro circa 50 persone, salvo la ricollocazione di una parte di esse in altre aziende». E anche il rischio della perdita di occupazione si mantiene alto: «La retribuzione è bassa e il lavoro è duro, quindi il settore non è attrattivo per i giovani. Inoltre, la forza lavoro è piuttosto vecchia, quindi nei prossimi anni vedremo parecchie pensioni».
Sulle condizioni di lavoro del settore, Fillea è attivo da anni: «Abbiamo denunciato queste condizioni a più riprese, e non smetteremo mai. C’è una commissione paritetica dove stiamo lavorando per fare qualche miglioramento per quanto riguarda i macchinari usati per la produzione, in modo da garantire una maggiore sicurezza per i lavoratori». Riguardo agli infortuni, Mastrogiuseppe afferma che i numeri non sono molto alti, ma specifica che spesso gli infortuni minori non sono denunciati. «E quando vengono denunciati, assistiamo anche ad azioni di rivalsa: un’azienda aveva persino rifiutato di riconoscere l’infortunio». Il segretario focalizza l’attenzione anche sulle temperature rigide a cui gli addetti sarebbero costretti a lavorare durante l’inverno: «L’anno scorso ho misurato personalmente le temperature in cantiere e gli addetti lavoravano a -7, -8 gradi. Alcune aziende, poi, non assicurano neanche i servizi igienici e l’acqua corrente».