L'editoriale

venerdì 25 Agosto, 2023

I cani, la gatta e la violenza da rieducare

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Il linguaggio degli stupratori di Palermo dice tutto. La vittima è così deumanizzata e resa inerme, con i corpi e con le parole. Tuttavia, il lessico animale e la scelta di definirlo «branco» porta lontani rispetto a una possibile soluzione. Dalla deumanizzazione – della vittima ma anche degli abuser – è necessario riumanizzare per guardare in faccia le responsabilità sistemiche, sociali e culturali

Il limite, già travalicato dalle principali testate nazionali che forse hanno superato continenza ed essenzialità eccedendo nella cronaca millimetrica di ciò che è accaduto a Palermo, nei social s’è del tutto perso. Foto segnaletiche, nomi e cognomi dei sette giovani arrestati, post rilanciati da influencer fino a qualche giorno fa specializzati perlopiù in gastronomia o botanica. E gruppi Telegram nati con un solo obiettivo: trovare il video dello stupro in un cantiere abbandonato del Foro Italico. È dovuto intervenire il Garante della Privacy a ricordare che esistono delle conseguenze, anche di natura penale, circa diffusione e condivisione dei dati personali della vittima. Con due provvedimenti d’urgenza, l’Authority ha rivolto un avvertimento a Telegram e alla generalità degli utenti della piattaforma, affinché venga garantita la necessaria riservatezza della diciannovenne, la cui immagine seppur offuscata in modo rudimentale è già stata colpevolmente diffusa dai quotidiani.

Eppure, della vittima, pare in pochi abbiano cura. L’attenzione – morbosa, violenta, quasi maniacale nella ricostruzione didascalica di quella notte – è tutta rivolta a scavare un solco netto: quelli sono i carnefici e nulla hanno a che fare con me, con noi. Un moto che assomiglia agli argomenti spesso sintetizzati in «Not all men…», ossia «Non tutti gli uomini…», una espressione utilizzata spesso a proposito di violenza di genere, mascolinità tossica, patriarcato. «Siamo altro». «Non ci tocca». Eppure, questo sforzo virulento di costruire una alterità è un moto per annacquare la responsabilità, diversa dall’innegabile colpa dei sette stupratori che ora – se già non l’hanno fatto – dovranno riconoscere la gravità della violenza, la gravità delle parole a perdere vergate in quelle frivole chat che, senza nemmeno saperlo, rappresentano pienamente gli stereotipi machisti.

Il linguaggio degli stupratori di Palermo dice tutto: cento cani sopra a una gatta. La vittima, come ha avuto modo di spiegare magistralmente l’attivista Carlotta Vagnoli, è così deumanizzata e resa inerme, con i corpi e con le parole. «La logica della mascolinità performativa – dice – avvolge a tutto tondo questo ennesimo caso di violenza collettiva. Gli elementi ci sono tutti: collegialità maschile, superiorità numerica, violenza sessuale, fisica, verbale, psicologica (prima, dopo, durante con le intimidazioni)».

Tuttavia, il lessico animale (cani e gatta) e la scelta di definirlo «branco» porta lontani rispetto a una possibile soluzione. Dalla deumanizzazione – della vittima ma anche degli abuser – è necessario riumanizzare per guardare in faccia le responsabilità sistemiche, sociali e culturali. La manifestazione di «Non una di meno» ha scelto una frase che dice tutto: non sono malati, sono i figli sani del patriarcato. Il bisogno quasi fisico di socializzare i volti degli arrestati e costruire nemici altri rispetto a noi rende del resto ciechi davanti a una piaga sociale.

Se è vero che stupri e ammazzamenti sono la deflagrazione più aberrante della violenza di genere, non possiamo dimenticare dove si annida il seme di un modello che – ahinoi – non conosce censo e non conosce età (e i fatti di Palermo lo dimostrano). Ancora una volta: esiste dunque una colpa ed esiste una responsabilità. Non meno grave è il corpo di una donna ricoperto di cioccolato e posato quasi fosse un fantoccio sul tavolo di un buffet in Sardegna.

Cosa ci porta, sino a qui? Come si affrontano le nostre responsabilità? Rieducando. Il lemma del mostro, del cane, dell’animale che va punito senza alcuno sconto, oltre che del tutto lontano da ciò che prevede la nostra Costituzione – almeno sulla carta – è la negazione della riabilitazione, della possibile rieducazione degli uomini che agiscono violenza. Ma anche la nostra rieducazione.

I numeri ci impongono un cambiamento radicale nell’approccio. E lo dimostrano anche i dati del Trentino. Quest’anno, fino a giugno 2023, si sono registrate 112 richieste di intervento degli psicologi dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari, di cui il 27,7% per assistenza ai minori, richieste che, per i primi sei mesi dell’anno, risultano essere pari a quelle dell’intero 2022, anno in cui sono stati 114 gli interventi di cui 31,6% per ascolto di minori.

Il centro CambiaMenti coordinato da Fondazione Famiglia Materna e l’Associazione laica famiglie in difficoltà (Alfid) e che ora aprirà una sede a Trento, è allora la bussola per orientare il nostro agire. Restano però le contraddizioni normative che bloccano una reale e piena attivazione di un servizio. La cosiddetta legge Codice Rosso (la 69 del 2019) all’articolo 6 specifica che «non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Gli oneri derivanti dalla partecipazione ai corsi di recupero (…) sono a carico del condannato». Un limite, perché ancora una volta si sottintende che chi è esplicitamente colpevole non merita nemmeno di essere rieducato con la finanza pubblica.
Tuttavia la responsabilità è (anche) pubblica. La violenza di genere ha radici lunghe e profonde. Replica sé stessa, di padre in figlio. Si annida fra le pieghe damascate dei salotti lussuosi e abita nelle periferie delle case popolari. Parla un ottimo italiano, in altri casi incespica. Indossa una camicia e una cravatta, oppure una tuta blu. È poco più che adolescente, ma persino matura. Non esistono censo e nazionalità quando si tratta di maltrattamenti, di botte alla compagna, di annichilimento verbale. E agire, abbandonando la caccia ai mostri, dev’essere impegno collettivo.