L'avvocato

domenica 19 Maggio, 2024

Gli ottant’anni di Adolfo de Bertolini: «Ho difeso troppi assassini. Stava mi ha segnato»

di

Una vita vissuta in tribunale: «Iniziai con i pataccari e con il contrabbando, poi arrivarono droga, violenza e i reati legati alla pubblica amministrazione»

Avvocato Adolfo de Bertolini, martedì 21 maggio lei compie 80 anni. Che giorno sarà?
«Come qualsiasi altro giorno».
Non è un traguardo importante? Quando era giovane non le pareva un tempo lontanissimo?
«Non ho mai pensato fino a quanto sarei vissuto. È un problema che non avevo e che non ho».
A 80 anni si è ormai nella terza età.
«Sono invecchiato (?)… Da un giorno all’altro mi sono reso conto che avevo 75 anni, cinque anni fa».
Che cosa è cambiato da quel momento?
«Ci ho pensato molto e non sono stato in grado di saperlo».
Ma è stato uno choc?
«No. Ho un fratello psichiatra al quale ho chiesto lumi. Avevo una sorta di autodifesa per cui a me non poteva capitare di morire in un incidente d’auto, di farmi male sugli sci, o di ammalarmi in modo grave. È andata così, evviva».
Certamente. Se guarda indietro sono passati troppo in fretta questi 80 anni?
«Per ogni giorno che tramonta, adesso il passato lo avverti sempre più velocemente. La velocità del tempo presente è esponenziale. Ed altrettanto lo è la durata del passato».
Una vita intensamente vissuta, sempre sugli scudi: brillante avvocato con una famiglia importante alle spalle: c’è un sogno che non ha potuto realizzare?
«Volare».
Ha paura dell’aereo?
«No, volare fisicamente come Icaro».
Il quale ha fatto una brutta fine. A proposito, con un volo pindarico riandiamo con la memoria agli anni Novanta del secolo scorso. L’avevano convinta a candidarsi per il Senato della Repubblica.
«Ero stato sollecitato e lo avrei fatto volentieri. La campagna elettorale del 1992 è durata appena un mese perché non avevo tempo. Ma è stata un’esperienza straordinaria perché avevo conosciuto tante persone; la gente vera, quella che sta nei paesi. Ho conosciuto luoghi e valli che mi erano sconosciute. Un’esperienza meravigliosa».
Nonostante la bocciatura…
«Sul piano personale ho preso un sacco di voti (con il “Patto per l’Italia”, nel collegio di Trento ottenne 26.885 voti pari al 21,4%) ma fu l’anno in cui portò via tutto Berlusconi».
Com’era da studente?
«Altalenante e resiliente, come si dice oggi. Passavo da voti bassissimi a picchi elevati».
E al liceo classico «G. Prati» di Trento fu pure sospeso per tre volte, una per tre giorni. Che cosa accadde?
«Niente di particolare. Facevamo tutti un po’ di casino, io sono salito in piedi sulla cattedra e ho detto: “oggi facciamo una rivoluzione”. Nessuno ha battuto ciglio anche perché, in quel momento, stava entrando il preside Piovan».
Che l’ha sospesa tre giorni per oltraggio al decoro della scuola. E a casa, come l’hanno presa?
«Arrivato a casa (dietro l’angolo del liceo), trovai papà sulle scale. Come mai non sei a scuola? Mi hanno sospeso per tre giorni. Mi disse solo: adesso vieni nel mio studio, ti metti su una sedia e stai lì, in silenzio, mentre io lavoro».
È nata lì la passione per la toga?
«No, ma è vero che mio papà Tito talvolta mi portava con sé, a Tione per esempio dove c’era la Pretura. Avevamo il piacere reciproco di stare insieme. Papà è morto nel 1967».
Il nonno, Adolfo de Bertolini senior, è stato un personaggio importante per la comunità trentina che ha servito come prefetto nella prima e nella seconda guerra mondiale. Nel 1918 rischiando la forca (perché cugino del generale Marchetti al quale passava qualche informazione); nel 1943-1945 subendo l’accusa di collaborazionismo con gli occupanti nazisti poi prosciolto in istruttoria dal Tribunale di Trento. «Lei è nato il 21 maggio 1944, a Sopramonte, dove la famiglia era sfollata. Chiamarsi Adolfo, negli anni del primo dopoguerra, fu un problema?
«Lo era ma anche no. Lo era perché trovavo degli adulti che, per offendere la memoria del nonno (morto di crepacuore nel 1946) mi salutavano con un “Heil Hitler”».
E poi?
«Trovavo altre persone, semplici cittadini, che mi fermavano e, in dialetto trentino, mi dicevano: “Bòcia, vara che to nòno l’ha salvà la zità”. È stato altalenante, ma appena sono diventato adulto, ho sempre portato con orgoglio il nome del nonno».
Una targa lo ricorda sulla facciata del palazzo di via Calepina (del XV secolo) dove la sua famiglia vive e lavora da decenni. Però…
«Però, tuttora, quando mi trovo con certe persone che vedo per la prima volta faccio subito presente – e quindi il tarlo c’è ancora – che mi chiamo Adolfo in ricordo del nonno e non c’è alcun riferimento all’imbianchino austriaco che determinò le tragedie della seconda guerra mondiale».
Da avvocato penalista lei ha attraversato la cronaca nera di mezzo secolo. Come è cambiata la delinquenza in Trentino?
«In modo radicale. Si facevano i processi ai “pataccari” (i venditori di patacche, orologi e monili falsi). Si facevano i processi per la grappa di contrabbando o per assegni a vuoto. Si facevano processi anche per reati gravi ma non c’era ancora la droga, all’inizio».
La svolta nel giugno 1975 con la morte per overdose di un ragazzino di 14 anni, in una camera dell’hotel Posta a Trento.
«Si cominciò con i reati per spaccio di droga e si scoperchiò quel vaso di Pandora che furono i reati legati alla pubblica amministrazione».
Ha difeso più i ricchi o i poveracci?
«Ho difeso chiunque, anche per reati tremendi. Ho difesi vari imputati per una violenza abominevole nei confronti di una ragazza disabile della Valsugana. Un giorno, tornando a casa, mia moglie, Lorenza (Corsini, già preside di liceo), mi disse che in piazza Duomo avevano issato dei grandi falli di cartone con sopra la mia fotografia e di altri colleghi che difendevano quegli imputati».
Come si fa a difendere un imputato del quale si sa in partenza che è colpevole?
«La difesa, anche quando è nota la colpevolezza dell’imputato, ha una rilevanza significativa per la quantificazione della pena».
Ha mai cercato di convincere un suo cliente, che lei sapeva colpevole, a dichiararsi innocente?
«Mai, però ho sempre detto al cliente: se lei non condivide ciò che dico cambi avvocato».
C’è stato qualcuno che, pur condannato anche a pene pesanti, una volta libero è passato a ringraziarla?
«Sì, ci sono ex condannati che mi fermano per strada, mi raccontano la loro storia della quale, per qualche tratto, ho fatto parte».
Si crea empatia fra l’avvocato difensore e il delinquente?
«È una condizione psicologica difficile. Ho sempre cercato di capire senza giustificare. Perché, comunque, a tutti può capitare di sbagliare».
Qual è stato il processo penale che più l’ha coinvolta?
«Quello per il disastro di Stava. Difendevo i fratelli Rota della Prealpi mineraria concessionari della miniera di Prestavèl e i due terrapieni crollati il 19 luglio 1985 che causarono la morte di 268 persone. Fu un processo di una sofferenza inevitabile che ti porti dietro per anni».
Un tempo, quando lei cominciò a frequentare Preture e Tribunali, gli avocati erano pochi.
«Pochissimi».
Oggi la categoria è piuttosto affollata. Mancano medici ma gli avvocati abbondano. Eravate migliori, allora?
«Allora era tutto molto più semplice. Era meno farraginosa anche la quotidianità del processo. Oggi è tutto più complesso. Per almeno vent’anni ho avuto una situazione professionale di privilegio: nei termini di qualità del lavoro».
È stato allievo dell’avvocato Michele Pompermaier (1931-1994) cui è stata intitolata la Camera penale di Trento e Rovereto.
«Noi abbiamo avuto dei maestri di grande spessore».
Ricorda il suo primo processo?
«Fu in Pretura, con un giudice particolarissimo e irripetibile e feci la mia arringa con grande impegno e con veemenza. A un certo punto il giudice mi apostrofò: “D’Artagnan – mi chiamavano così per il pizzetto – non mi rompa i santissimi tanto lo condanno ugualmente”. L’imputato fu assolto».
Avrà un ricco carnet di episodi gustosi…
«Ricordo che una volta il giudice Rocco La Torre, in una pausa del processo col vecchio rito mi disse: “Avvocato, se lei continua così io la faccio arrestare in aula”».
Lei ha difeso assassini…
«Troppi».
Quante condanne all’ergastolo ha evitato ai suoi clienti?
«Alcune. Non a qualcuno che ne aveva già tre. Ricorda l’omicidio del maresciallo Francesco Massarelli?».
Come no? Fummo tra i testimoni. Era il 27 settembre 1977, la rapina alla banca Nazionale del Lavoro con due banditi (Levrone e Virdò) uccisi nella sparatoria con la polizia e gli altri due, Settimo e Lattanzio, catturati dopo alcuni giorni. Avvocato de Bertolini, quanti processi ha patrocinato?
«Molti. Anche perché, spesso, facevo il difensore in processi a persone che non avevano la possibilità di pagare».
Poi è arrivato il «gratuito patrocinio».
«Dove paga lo Stato, ma io non mi sono mai iscritto».
Lei ha due figli. Andrea, avvocato (eletto in Consiglio provinciale), e Alessandro, pure laureato in legge, ricercatore al museo storico del Trentino e giramondo.
«Meravigliosi, amatissimi e migliori di me».
Non sia modesto e non faccia l’avvocato difensore.
«È così. E poi mi hanno regalato tre splendidi nipoti che a me a mia moglie, Lorenza, hanno stravolto la vita».
E l’hanno fatta ricredere sull’aldilà?
«Da laico dico che loro sono già un paradiso».
Ottant’anni sono una tappa importante ma non il traguardo. Che cosa farà da grande?
«Quello che ho fatto da piccolo: rispettare gli altri ed avere il senso di responsabilità».
Come le piacerebbe essere ricordato?
«Per l’amicizia».
È una persona davvero per bene. Auguri cari.