L'appello
domenica 18 Maggio, 2025
Gino Cecchettin e le parole (scorrette) per raccontare la violenza: «Basta colpevolizzare le vittime»
di Elisa Egidio
Il papà di Giulia al convegno contro gli stereotipi di genere della fondazione Caritro a Trento: «Sono stato attaccato per aver sostenuto mia figlia»

In ufficio, a casa, in tv, sui giornali, negli ospedali, sui social network. Gli stereotipi di genere sono presenti ovunque e si diffondono attraverso il linguaggio e la cultura dominante. Come riconoscerli e contrastarli? Ne hanno parlato ieri, alla Fondazione Caritro di Trento, Gino Cecchettin, la dottoressa Annalisa Voltolini, coordinatrice della Commissione medicina genere specifica dell’Ordine dei Medici della provincia di Brescia e Stefania Cavagnoli, professoressa di linguistica applicata e componente della Commissione pari opportunità della Provincia autonoma di Trento. In collegamento da Dresda è intervenuta la professoressa Annamaria De Cesare Greenwald, titolare di linguistica generale e linguistica italiana presso l’Università di Basilea. Il convegno è stato organizzato dalla Commissione provinciale pari opportunità (Cpo) con Fidapa e il patrocinio della Fondazione Caritro, con l’obiettivo di riflettere sull’importanza dell’utilizzo di un linguaggio attento al genere, alla promozione dell’equità e al contrasto degli stereotipi. Un’iniziativa che ha riscosso un’ampia partecipazione in una sala Caritro gremita, a dimostrazione dell’interesse della cittadinanza verso la tematica affrontata.
Gino Cecchettin ha analizzato il linguaggio utilizzato dai media per raccontare la violenza di genere. «Quando si parla di notizie diffuse dai giornali o dai servizi dei telegiornali, spesso sono intrise di quello che viene chiamato vittimismo secondario – ha considerato Cecchettin – perché si portano dietro, o per questioni meccaniche, o perché si vuole istigare qualche altra informazione, il “se lo è andata a cercare” e questo di sicuro è un problema, perché non si pensa mai alla vittima». Un fenomeno che colpisce anche le vittime sopravvissute alla violenza, che vengono giudicate «per il modo di vestire, o nella propria vita, dando anche una giustificante all’aggressore. Da questo punto di vista ci dovrebbe essere un’attenzione particolare», ha suggerito Cecchettin. «Un’attenzione che presuppone innanzitutto una cultura del rispetto verso la persona e poi – ha proseguito – da un senso etico che dovrebbe essere super partes nel dare la notizia, senza cercare instancabilmente di creare il caso». Una forma di violenza che la famiglia Cecchettin ha vissuto sulla propria pelle, dopo la morte di Giulia. «Quello che mi ha fatto più male è che dopo aver vissuto quello che ho vissuto, sono stato anche attaccato per aver sostenuto mia figlia, cosa che farò sempre», ha detto.
La Fondazione Giulia Cecchettin promuove progetti per la prevenzione della violenza di genere attraverso il dialogo e la cultura del rispetto. «Tra i nostri obiettivi c’è quello di riportare l’ora di educazione alla relazione e all’affettività, che deve essere importante come tutte le altre materie, senza chiedere l’avallo dei genitori», così Cecchettin, riguardo alla proposta del ministro Valditara di istituire una stretta sull’educazione sessuale nelle scuole. Annalisa Voltolini ha poi parlato degli stereotipi in ambito medico-sanitario e dell’importanza della medicina narrativa. «La parola fa parte della cura, a seconda di come la utilizziamo può essere un farmaco o un veleno», ha affermato. Tra i comportamenti scorretti più comuni «chiamare il paziente con un numero o alzare la voce con i pazienti stranieri, anche se non capiscono la nostra lingua». La professoressa Cavagnoli ha invece evidenziato il rischio di perpetuazione degli stereotipi attraverso l’intelligenza artificiale: «Se dici a Chat Gpt di raccontare la storia di una famiglia felice, racconterà la storia di quattro persone, madre, padre e due figli. L’Istat ci dice che ci sono pochissime famiglie così». «Sono strumenti molto utili, ma bisogna fare attenzione a come rappresentano le persone e al fatto che riproducono i bias, perché contengono dati dei testi su cui sono stati addestrati, compresi i testi sui social», le ha fatto eco De Cesare. «Un esperimento da fare sarebbe creare annunci di lavoro in modo equo: agli annunci al maschile si presentano prevalentemente uomini», ha concluso la docente di linguistica.