Cinema

giovedì 1 Maggio, 2025

Trento Film Festival, Gabriele Canu presenta “Altrove”: “Il cinema mi ha fatto capire la mia visione di alpinismo”

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Il documentario verrà trasmesso domani sera alle 21 al Cinema Modena

Gabriele Canu, savonese, classe 1981, è giunto al mondo del documentario quasi per caso. Fino a pochi anni fa aveva un impiego come tecnico informatico, non aveva una particolare passione per il cinema, né una formazione specifica in materia. Dopo alcuni brevi esperimenti video, nel 2018 debutta nel lungometraggio con «Finale ‘68», selezionato al Trento Film Festival nel cinquantesimo anniversario della prima via d’arrampicata di Finale Ligure. Dalla scrivania dell’ufficio alla sala gremita del festival, l’impatto è tale da portare Canu a decidere di cambiare professione. Una scelta confermata dall’accoglienza riservata nel 2024 a «Sadpara», intenso viaggio attraverso il cuore delle montagne pakistane, anch’esso presentato a Trento e in numerosi festival internazionali. Quest’anno Canu porta al festival il documentario «Altrove», nella sezione «Orizzonti vicini» (domani, ore 21, Cinema Modena): in una piccola spedizione in un altrove inesplorato, spazio desiderato e necessario, roccia e pareti si trasformano da protagoniste assolute a prezioso sfondo di una storia di amicizia, di relazioni e di alpinismo come cura per l’anima.
Una professione nata per caso, ma si respira amore sincero per la montagna.
«Sono da sempre affascinato dai monti, forse perché vivo sul mare. Fin da piccolo andavo a fare escursioni con mio papà, mi ha trasmesso l’amore per la montagna. Poi, negli ultimi vent’anni, ho sviluppato una passione per la scalata. Alle medie il mio professore di educazione fisica era Fulvio Scotto, accademico del Cai e grande esploratore delle Alpi Sud Occidentali. Ho avuto occasione di assistere a una sua serata ed è scattato qualcosa. Mi sono innamorato delle Dolomiti, ricordo che spesso lui arrivava a scuola stanco perché tornava direttamente dalle arrampicate che faceva in Veneto o in Trentino. Per un po’ di tempo ho fatto anch’io così: weekend a scalare le Dolomiti e rientro direttamente in ufficio».
Una passione che ha influito sul suo attuale lavoro?
«Mi è servita a comprendere la mia idea di alpinismo. Ho girato tanto, ho scalato molte pareti. Sulle Dolomiti ho percorso le vie storiche, volevo capire l’evoluzione dell’alpinismo sotto il profilo umano, la sua bellezza, le sue tappe principali. Ho aperto anche alcune vie, una sulla quarta Pala di San Lucano, si chiama “L’attimo fuggente”. Il mio stile è molto tradizionale, non ho mai utilizzato un trapano. Per me la vera avventura è questa: se la natura lo consente senza forzarla, procedo, altrimenti lo farà qualcuno con capacità superiori alle mie».
«Altrove» rispecchia molto questa sua visione della componente umana dell’alpinismo, come è nato?
«Mi trovavo al festival “Oltre le vette” a Belluno e per caso sono finito allo stesso tavolo con Alessandro Beber. Io non ho miti nell’alpinismo ma ho sempre avuto una predilezione per Beber perché è capace di dimostrare grandi cose senza dover andare dall’altra parte del mondo, sa prendere il bello di ciò che ha vicino. Gliel’ho detto e abbiamo iniziato a parlare. Concordiamo sul fatto che dare oggi un valore alle salite è quasi impossibile, se vai più lontano sembra valga di più. Nel calderone dei social questo aspetto si amplifica. Ma per noi la salita ha un suo valore che non dipende dalla distanza. Ci siamo rivisti a Trento l’anno dopo e abbiamo deciso di fare un film che parlasse anche di questo».
Quattro amici, un luogo non identificato, una via, si parla di montagna ma in realtà anche di altro.
«Inizialmente Alessandro ha coinvolto Matteo Pavana, poi il giorno previsto per iniziare le riprese si sono presentati in quattro. Sono tutti amici ed è stato molto spontaneo. Non c’era una scrittura pregressa, è stato un work in progress continuo. Io amo il reportage perché è più naturale, più vero, prendi le persone per quello che sono. Poi si scrive al montaggio. I temi che sono usciti, come la dipendenza, potevano anche non emergere, sono il frutto della situazione. Quando Alberto Fedrizzi si è confessato alla macchina da presa, ho capito che era un momento chiave, si è fidato di me».
Qual era il suo scopo?
«A me piace che i film parlino delle persone, non sarei capace di fare un film sull’alpinismo puro. Parlare dell’umanità, non dell’arrampicata. Dal mio punto di vista conta l’avventura, non sono interessato a cosa si riesce a fare tecnicamente, mi interessa casomai il perché si sceglie di farlo. Siamo vittime del concetto di performance ad ogni costo».
Considera l’obiettivo raggiunto?
«Una ragazza mi ha scritto che guardando il film si è commossa e divertita, dimenticandosi di essere al cinema. Era come se fosse ad arrampicare tra amici. L’immedesimazione che cercavo. Per me è stata un’emozione fortissima».