L'opinione

martedì 27 Dicembre, 2022

Tisi si scaglia contro gli algoritmi: «Ci profilano e minano la libertà»

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Napolitano (Fbk): «Ok l’appello del Vescovo, ma i dati sono il futuro»

Esiste un’ambivalenza di fondo sull’utilizzo dei dati in epoca digitale. Capaci di influenzare le scelte, se strumentalizzati per fini commerciali o politici; ma anche elementi in grado di connettere e assicurare spazi di libertà. A sottolineare il primo dei due aspetti, nell’omelia di Natale, è stato il Arcivescovo Lauro Tisi, critico sulla pervasività dell’algoritmo nella vita degli individui, sempre più portati a non scegliere, visto che c’è una tecnologia che lo fa al posto loro. «Nonostante tutte le leggi sulla privacy, accompagnate dall’illusione di vivere senza il controllo di niente e di nessuno, siamo in realtà tutti contati, schedati, profilati. L’algoritmo capta i nostri desideri, attese e interessi e, in base a questi, sottopone alla nostra attenzione notizie, informazioni, proposte commerciali. La stessa nostra collocazione fisica può essere costantemente monitorata», ha detto il religioso il 25 dicembre ai fedeli, parlando del «silenzioso censimento delle nostre vite». «Chi vive nella gioia non si sottrae alla sfida di scegliere, non si accontenta delle vie di mezzo, non si lascia stordire dal grido del più forte, non permette che la propria agenda sia dettata dagli algoritmi», ha aggiunto.
Se è vero che un utilizzo scorretto dell’innovazione può avere risvolti negativi, secondo Maurizio Napolitano, coordinatore dell’unità «Digital lab commons» della Fondazione Bruno Kessler, è ormai impossibile sottrarsi a un mondo interamente digitale.
Napolitano, che cosa ne pensa della lettura data dal vescovo?
«L’Arcivescovo Tisi fa bene ad alzare la voce su questo tema. Lanciare un allarme sul tema della privacy e sulla pervasività dei dati può essere d’aiuto per aumentare la consapevolezza delle persone su un tema complesso, di cui ancora hanno contezza in pochi. Ma a quelle riflessioni va aggiunto un pezzetto: è difficile immaginare un mondo diverso in cui vivere oggi, visto che siamo immersi in un sistema costruito dalle piattaforme digitali. L’unica via è proseguire sulla strada dell’innovazione».
Dati come strumento di controllo o dati come beni comuni digitali: quale delle due fruizioni le sembra al momento più pervasiva?
«Il digitale ha due caratteristiche che stanno mettendo in crisi il nostro tempo: la capacità di amplificare la portata del cambiamento e la capacità di farlo velocemente. La differenza la fanno gli utenti: devono capire che queste piattaforme stanno in piedi grazie a loro e che quindi possono indirizzarle e non subirle. Sono molte le chances legate alla società digitale. Alle persone dà la possibilità di organizzarsi, fare rete e avere una voce. Tuttavia, ci sarà sempre un lato oscuro e dobbiamo accettarlo. Qualsiasi innovazione va portata avanti facendo attenzione. La deriva di controllo dell’utilizzo dei dati ci può essere, come successo in Cina. La sfida è riuscire a governarla, trovando le giuste declinazioni etiche».
Il fatto che i dati, anche i più importanti, siano in mano a grandi privati accresce il rischio di una deriva dell’utilizzo dei dati?
«Il software, come dice anche il giurista statunitense Eben Moglen, è l’essenza del XXI secolo. Chi controlla il software, controlla il mondo. Il problema è che questa capacità è in mano a pochi. Spetta a chi opera nel settore trovare vie per governare questo fenomeno, facendo in modo che non prevalga il lato oscuro. Non solo. Credo che in questo momento possa conferire sostenibilità al sistema dei dati l’intervento dei governi, chiamati ad agire nell’interesse del bene pubblico, come inizia a fare l’Unione Europea».
Quali alternative è possibile costruire?
«Le uniche alternative sono il decentramento e la crittografia dei dati. C’è una parte di studiosi che lavora sull’Open Source (software libero, ndr), sulla libertà digitale, sulla decentralizzazione e sulla privacy. Ma per ora è un mondo che coinvolge addetti ai lavori. Gli step da seguire, a mio avviso, sono tre: il primo punto è accettare con consapevolezza il ruolo dei dati nella nostra società. Il secondo è percepire il singolo individuo come potenzialmente determinante per le sorti delle grandi società che fanno software. Il terzo è accrescere la conoscenza che le persone hanno di questo tema in ogni settore del sapere».