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sabato 18 Novembre, 2023

Stefania Spanó e la denuncia in vignetta: «Anarkikka sono io. La violenza? Non chiamatela raptus»

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Oggi, a Lavis, l'autrice ha presentato il suo libro «Smettetela di farci la festa». Dal 20 novembre al 3 dicembre sarà visitabile la mostra per sgretolare sessismo e discriminazioni

Quel caschetto nero, dritto-dritto, senza cicaleggi e senza orpelli è ormai il simbolo di una ragazza impertinente: Anarkikka. Ruvida, schietta, ironica, allergica alle curve del ragionamento che impigriscono la verità sostanziale e allacciano il pensiero franco. «Ma poi, alla fine, Anarkikka è lei? O quella personaggia è una sua cara amica che la compensa?». Alla domanda Stefania Spanò si ferma un istante e l’intervista si ammutolisce un paio di secondi. «Sono io», risponde poco dopo. Autrice, vignettista, copywriter, illustrAutrice grafica, graphic journalist, esperta di comunicazione: Spanò è anche e soprattutto un’attivista che ha scelto l’arte come mezzo per sensibilizzare la collettività sulla violenza di genere. «La mia è una passione recuperata – racconta – mi sono ripresa la mia esistenza con le vignette. Ero silenziosa e con Anarkikka ho cominciato a parlare». E denunciare una narrazione deforme dei femminicidi. Ed è per la potenza della sua voce, capace di intercettare generazioni diverse, che il Comune di Lavis l’ha scelta per accompagnare la settimana dedicata al contrasto della violenza contro le donne. Dal 20 novembre al 3 dicembre, nell’atrio dell’Auditorium comunale, sarà visitabile la mostra «Non chiamatelo raptus» per sgretolare sessismo, violenza e discriminazioni; mentre oggi, alle 18.30 sempre all’Auditorium, Spanò, in carne, carta e ossa ha presentato il libro «Smettetela di farci la festa».
Insomma: la sua, ha raccontato, è una passione recuperata. Disegnava da ragazzina, poi la vita l’ha portata altrove. È stata l’urgenza di raccontare il femminile a riportarla lì? Oppure ripresa in mano la matita ha deciso di denunciare le asimmetrie di genere?
«Entrambe le cose: mi sono trovata in un momento della mia vita in cui ho avuto la possibilità di fare delle scelte e ho pensato di ritornare alla mia vecchia passione: disegnare. Mi era stato impedito di fare il liceo artistico e quindi mi sono ripresa quella voglia e quella passione che mi ha portato naturalmente a parlare di alcuni temi su cui avevo da dire allora e ancora oggi ho molto da dire».
Qual è la prima vignetta che ha fatto? La ricorda?
«Non ricordo esattamente la prima, ricordo tuttavia il periodo. Era il momento in cui le donne iniziavano a ribellarsi al berlusconismo goliardico; era il periodo di “Se non ora quando”. Ho iniziato occupandomi del linguaggio dei media utilizzato per raccontare la violenza, per indicare la cultura in cui siamo sommersi e ingabbiati».
Ha iniziato negli anni del berlusconismo, dell’oggettificazione totale della donna. Ma che lotta combattiamo oggi?
«Dal punto di vista politico non sono affatto positiva: siamo in un momento di retrocessione. C’è una grossa difficoltà del mondo progressista a proporre modelli di vita più giusta, sostenibile, credo manchino anche risposte economiche. La sinistra non trova modelli di riferimento, non riesce a intercettare i bisogni. A destra, invece, l’affermazione di “Dio patria famiglia” rende abbastanza chiaro il riferimento valoriale distante anni luce rispetto a quello di cui le donne avrebbero bisogno. Sulla consapevolezza maturata nel tempo viceversa sono ottimista: le nuove generazioni sono più consapevoli del mondo che li circonda. Io lavoro molto nelle scuole, sia medie sia superiori, e i ragazzi rispondono, le ragazze sono curiose, hanno domande da fare. Avvertono l’esigenza di parlare di certi temi. Solo attraverso l’educazione possiamo cambiare il mondo, smettendola di occuparci solo di cosa accade dopo la violenza perché è sulla prevenzione che c’è ancora molto lavoro da fare».
La sua mostra «Non chiamatelo raptus», che sarà visitabile a Lavis dal 20 novembre al 3 dicembre, è un chiaro riferimento alle pericolose rappresentazioni dei titoli dei giornali dinnanzi ai femminicidi. Ce la racconta questa esposizione? Qual è il filo conduttore?
«Il filo conduttore è il linguaggio dei media che svela la nostra cultura, è il nostro specchio. La violenza non è raptus, non è il gesto di un folle, non arriva all’improvviso. La violenza deflagra quando le donne denunciano, quando si allontanano, quando si emancipano. La violenza riguarda tutte e riguarda tutti. La donna è ancora oggi una proprietà, un oggetto di cui disporre, siamo un corpo a disposizione del maschile».
Senta, ma Anarkikka chi è? È lei o una sua compagna di viaggio?
«Sono io. Io ho iniziato a parlare con lei, lei si arrabbia, io non lo so fare, anche per educazione ho un tono basso. Ed è ironica, io mica lo sapevo di esserlo. Lei mi è complementare, con lei sono cambiata. E ho iniziato a denunciare. Anarkikka è la mia personaggia, ma sono io, è il mio nome politico».
Con il suo sarcasmo racconta le asimmetrie quotidiane di una società ancora fortemente patriarcale. Dove si parte? Nelle scuole? E come coinvolgere bambini e i ragazzi?
«Ovviamente dipende da come si pone il tema. Se lo si pone “me contro te” non è facile, si sente l’obiezione classica che anche le donne fanno cose cattive. C’è una chiusura comprensibile, specie quando sono piccolini. Non dimentichiamo che gli stereotipi ingabbiano anche i maschi, costretti entro gli argini di ruoli definiti. Certo: hanno posizioni di privilegio, ma sono condizionati. La loro libertà lo è. Ecco perché la contrapposizione va superata, per costruire una società davvero più equa. Per tutte e per tutti».