L'intervista

venerdì 17 Marzo, 2023

Siccità, preoccupazione per l’agricoltura. Barbacovi: «Un piano provinciale per l’acqua e investimenti in bacini»

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Il presidente di Coldiretti: «I cambiamenti climatici impattano fortemente. L'Alto Adige è un esempio, ma non è replicabile. Tante donne imprenditrici in agricoltura»

Negli ultimi dodici anni il settore agricolo trentino ha perso 2.500 imprese. «Ma allo stesso tempo la superficie coltivata è aumentata». Segno della (lenta) crescita dimensionale delle aziende. In questi ultimi anni l’agricoltura stessa è cambiata, è diventata sempre più «multifunzionale»: «Non è più solo coltivazione, ma è anche agriturismo, vendita diretta, fattorie didattiche, agriasilo. Ed è anche questo uno dei motivi per cui oggi due terzi delle imprese agricole sono condotte da donne». Di sfide ne ha affrontate e ne dovrà affrontare l’agricoltura. Una su tutte: i cambiamenti climatici. Che aprono sicuramente opportunità: già solo oggi è possibile coltivare la vite a quote che fino a qualche decennio fa risultavano impraticabili. «Ma gli svantaggi sono maggiori». Dai parassiti alla siccità. Tema caldo quest’ultimo (perdonate il gioco di parole): «Serve un piano provinciale sulla gestione della risorsa idrica: oggi immagazziniamo solo l’11% dell’acqua piovana», sostiene il presidente della Coldiretti del Trentino, Gianluca Barbacovi, al forum de il T con il direttore Simone Casalini e il caporedattore Lorenzo Ciola. Parla a nome di quasi 9 mila iscritti, ossia il 66% degli agricoltori trentini, che in queste settimane sta incontrando sezione per sezione per il rinnovo delle cariche, in vista dell’assemblea provinciale a inizio estate.
Lei è stato eletto presidente nell’estate del 2018, qual è il bilancio del suo primo mandato?
«Ne abbiamo viste parecchie. Siamo partiti con la tempesta Vaia. Poi ci sono stati due anni di pandemia, che hanno portato degli scompensi importanti, soprattutto rispetto agli agriturismi e alla vendita dei prodotti tramite i canali horeca. L’anno scorso, infine, è esplosa la guerra russo-ucraina, che ha implementato l’aumento dei prezzi di materie prime, energia, mangimi, sementi e concimi. Ci siamo resi conto che una globalizzazione così spinta presenta delle lacune, penso alla famosa guerra del grano. Questo, da un certo punto di vista, ha riportato centralità all’agricoltura. I decisori politici, penso a Macron o a Draghi, avevano cominciato a pensare ad un’agricoltura sostenibile in termini di produzioni interne. Dall’altro lato, però, la guerra ha portato non pochi problemi, soprattutto alle aziende di trasformazione. La zootecnia ha sentito il contraccolpo più pesante. E adesso c’è la questione siccità».
Quali sono gli investimenti da realizzare per una gestione più efficiente della risorsa idrica?
«Il settore agricolo trentino, fortunatamente, ha già fatto investimenti importanti in passato. Oggi oltre il 95% dei terreni è irrigato da impianti a goccia e abbiamo diversi bacini di accumulo, ma non dappertutto. Sicuramente quello che serve è un piano a livello provinciale sulla questione idrica: bisogna fare una ricognizione sul territorio e capire bene quali sono le zone in cui c’è più scarsità d’acqua, dove poi realizzare investimenti strutturali. Per investimenti strutturali intendo la realizzazione di laghetti a basso impatto ambientale, che servirebbero non solo all’agricoltura, ma anche all’idroelettrico e al turismo, quindi laghetti che possono essere fruibili da turisti e residenti. E poi ovviamente servirebbero anche per l’uso potabile nei momenti di siccità. Oltre a questo bisogna investire sui sistemi che permettono di ridurre il consumo di acqua in campo agricolo. Oggi ci sono satelliti che ti permettono di capire bene l’evapotraspirazione delle piante e della terra oppure ci sono sensori agganciati all’intelligenza artificiale che misurano l’umidità e dicono agli impianti di irrigazione quando attivarsi. Quando si parla di risparmio idrico, però, tutti devono fare la propria parte, dai cittadini all’industria».
Le piogge degli ultimi giorni hanno aiutato?
«Hanno sicuramente aiutato, più che altro perché era un momento di quasi allerta, ma non sono sufficienti. Leggevo i dati di Meteotrentino: siamo indietro di quasi 300 millimetri rispetto alla media annuale. La stagione irrigatoria partirà tra un mese, quindi se dovessero esserci delle buone precipitazioni la situazione potrebbe migliorare. Però c’è il tema gelate: se dovesse esserci il problema gelo si dovrà partire a irrigare».
Ci sono zone del Trentino che sono in maggiore sofferenza?
«Normalmente le zone lontane dall’asta dell’Adige sono quelle che hanno più problemi, quindi le valli hanno delle criticità più importanti. Anche se il grosso problema è che negli ultimi due anni le precipitazioni nevose sono state scarse e la neve è il nostro magazzino per l’estate. Sarà quindi sempre più fondamentale immagazzinare l’acqua perché se da un lato le precipitazioni piovose sono sempre le stesse, più o meno un metro di acqua all’anno in Trentino, dall’altro ci sono sempre più periodi di siccità intervallati da bombe d’acqua. Noi in questo momento immagazziniamo l’11% dell’acqua piovana, quindi c’è ancora molto da fare».
A livello nazionale si pensa ad un piano straordinario. Cosa ne pensa?
«Certi problemi non possono più essere affrontati con le risorse provinciali. Ben venga un piano nazionale, ma sarebbe fondamentale introitare più risorse nella nostra zona perché facendo investimenti a monte si ha anche la possibilità di dare acqua a valle».
Come valuta invece la nomina di un commissario straordinario?
«La gestione deve essere nostra, non può essere nazionale. Il commissario per la siccità può avere un senso, ma bisogna ricordare che in passato il Trentino e l’Alto Adige hanno fatto molti più investimenti rispetto alle altre regioni».
Quanto incide il clima anche nella revisione dei modelli agricoli?
«Il cambiamento climatico impatta pesantemente, la nostra è una fabbrica a cielo aperto, quindi ogni minimo cambiamento le piante lo risentono. Da un certo punto di vista la montagna si sta sviluppando perché a seguito delle temperature più miti ci sono aree in quota che possono essere coltivate. C’è sempre il discorso idrico però, perché in certe zone montane è difficile reperire acqua. Se facciamo un bilancio sono più gli svantaggi dei vantaggi, perché, oltre alla questione idrica, il cambiamento climatico porta parassiti come la drosophila suzukii, la cimice asiatica e il bostrico. E poi il cambiamento climatico ha portato le grandinate e le gelate, o meglio, ha anticipato la stagione vegetativa».
In Alto Adige l’agricoltura, dalla legge del maso chiuso in poi, ha assunto un peso enorme, anche in termini politici. Perché in Trentino non ha questo peso? E come giudica il modello altoatesino?
«In Alto Adige hanno sviluppato una questione agricola diversa da noi, perché qui il maso chiuso non è praticabile. In Trentino, seppur abbiamo anche noi le nostre malghe, c’è molta più parcellizzazione aziendale. Ci sono aziende con superfici più piccole mediamente. Sicuramente è un esempio da seguire quello altoatesino perché va verso la qualità e guarda a un consumatore medio alto. Anche noi stiamo andando in questa direzione, ma in passato in Trentino sono state fatte politiche diverse, che ci hanno aperti a mercati globali. Sono comunque due modelli vincenti, sia quello altoatesino che quello trentino».
Le politiche europee vi spaventano?
«Si, perché vediamo una politica europea un po’ scellerata sul settore agricolo. Invece di avere un’Europa che si preoccupa di dare strumenti alle aziende per essere più competitive sul mercato, abbiamo un’Europa che pensa di trasformare il continente in un giardino verde del mondo in cui l’agricoltura dà quasi fastidio. Dico questo pensando, ad esempio, alle politiche nutri-score, cioè l’etichettatura a semaforo in cui il semaforo verde vuol dire prodotto sano e di qualità, mentre semaforo rosso vuol dire prodotto nocivo alla salute: prodotti come il Trentingrana, il prosciutto San Daniele, l’olio di Garda potrebbero avere un semaforo arancione o rosso perché ricchi di grassi saturi. Dobbiamo andare sempre di più verso un consumo consapevole, ma l’etichettatura non può essere fuorviante. Sono convinto che a livello europeo c’è una lobby forte di multinazionali che vuole portarci a diete universali basate sul cibo sintetico. Per il noi, invece, il cibo è tradizione, cultura e territorio».
Nei dodici anni tra il 2010 e il 2022 il Trentino ha perso 2.537 imprese agricole. Oggi quelle iscritte all’archivio provinciale sono 6.509. Come spiega questo trend?
«È vero che le imprese sono diminuite, ma è anche vero che il territorio coltivato non è diminuito, anzi si è implementato, quindi abbiamo aziende che si stanno ingrandendo. L’agricoltura è un settore in cui bisogna essere aggiornati e quindi le imprese piccole fanno fatica a stare sul mercato. L’azienda agricola trentina è mutata anche molto nel tempo: non si pensa più solo alla coltivazione o all’allevamento, ma si sta affermando il concetto di multifunzionalità, quindi agriturismo, vendita diretta dei prodotti, fattorie didattiche, agriasilo. E questo sta portando anche molte donne nel settore agricolo: un’impresa su tre è condotta da donne».
Per quanto riguarda l’età delle imprese si osserva un trend in calo anche per gli agricoltori tra i 18 e i 35 anni: erano 764 nel 2010, oggi sono 584.
«È vero che le nostre aziende sono in gran parte condotte da senior. La percentuale di giovani potrebbe essere più alta. Questi dati non contengono, però, i giovani che si mettono in società con i familiari».
Tema manodopera. Avete difficoltà a reperire lavoratori? Qual è la situazione?
«Abbiamo problemi, non possiamo nasconderlo. Le aziende sono cresciute dal punto di vista professionale e quindi è anche diventato più difficile reperire manodopera. In Trentino due terzi sono lavoratori sono stranieri, prevalentemente Romania, Slovacchia e qualcosa della Repubblica Ceca: ogni anno vengono dai 22mila ai 25mila lavoratori. Dall’Est Europa, però, si fa sempre più fatica a reperire manodopera perché le loro economie si stanno sviluppando. L’anno scorso fortunatamente è stato introdotto il buono «lavoro» che permette per periodi brevi di assumere lavoratori in cassa integrazione, pensionati, studenti e con reddito di cittadinanza, senza nessun impatto sul lavoratore».
Su alcuni nodi aperti come l’inceneritore qual è la vostra posizione?
«La nostra posizione è sempre stata quella di spingere sulla raccolta differenziata e sulla riduzione dei rifiuti. È palese però che una percentuale di indifferenziato va gestito, ma non con le discariche. Bisogna ora capire le tecnologie che impattano meno dal punto di vista ambientale: queste sono decisioni che non vanno prese solo dal punto di vista etico, ma anche e soprattutto dal punto di vista scientifico. Non so se l’inceneritore sia la tecnologia migliore. Quindici anni fa noi ci eravamo opposti all’inceneritore e credo sia stata una manovra intelligente perché in quindici anni è cambiata la tecnologia e poi perché abbiamo potuto implementare la differenziata. L’altra questione importante è quella del consumo di suolo: da anni chiediamo che ci sia una legge provinciale che tuteli l’agricoltura rispetto al consumo di suolo».