L'editoriale
mercoledì 23 Agosto, 2023
di Marika Damaggio
Chi ha partecipato al discorso pubblico di quasi mezzo secolo fa, oggi ritrova la medesima dialettica. Era il 1976 quando in Italia si tornò a scuola per l’ultima volta il primo ottobre. Un cambiamento sensibile nella vita scolastica e familiare, paragonabile alla riflessione che in tutto il Paese caratterizza oggi la richiesta di ripensare il calendario scolastico basato sul ciclo del grano, dunque meno sintonizzato col nostro tempo. Qui, come noto, il tema s’è concretizzato (ed è stato confinato) perlopiù nelle scuole per l’infanzia, che per volontà della giunta provinciale da tre anni a questa parte hanno esteso l’offerta anche nel mese di luglio.
Una sperimentazione parziale, nel senso che si addentra solo su una porzione di un più ampio sistema educativo, e accompagnata da vibranti proteste. L’animosità del confronto, che mestamente sconfina nell’intransigenza e nella mancata accettazione dell’alterità dei reciproci bisogni, al di là delle sue desinenze più scomposte a cui si assegna l’attenuante della fase pre-elettorale, esplicita l’importanza di un tema. Che sì, divide, ma riguarda tutte e tutti. Ed è vero. Banalizzare la questione rischia di confondere le priorità, soverchiando l’urgenza di un argomento. Ritenere l’estensione a luglio un servizio necessario, non può essere ritenuto un attacco al personale educativo; ritenere l’estensione a luglio un servizio necessario, non può essere ridotto allo scontro esclusivamente politico. Con o contro l’assessore Mirko Bisesti, con o contro la Lega.
Probabilmente buona parte delle 9.300 famiglie che hanno scelto il servizio estivo nelle strutture pubbliche nemmeno sanno come o quando è stato proposto e dei lemmi della commedia dell’arte poco si interessano. Esiste però un tema: garantire un servizio pubblico universale, economicamente accessibile, che tuteli i diritti delle bambine e dei bambini in modo equo e al tempo stesso risponda ai bisogni di conciliazione. Dunque un’alleanza scuola-genitori, di cui a lungo si fa menzione nelle «Linee pedagogiche per il sistema integrato zerosei» pubblicate dal Ministero dell’istruzione nel 2021. Un documento scientifico che vale la pena citare in qualcuno dei suoi passaggi.
Il filo rosso che ha ispirato l’intero documento, si legge, è rappresentato dalla centralità del bambino nel processo educativo e dai valori fondanti della partecipazione, dell’accoglienza e del rispetto dell’unicità di cui ciascuno è portatore, un’unicità caratterizzata da diversità individuali, che nel sistema integrato zerosei, ma più in generale nella società civile, devono trovare riconoscimento, considerazione e valorizzazione.
Si tratta di progettare insieme, nel rispetto delle competenze istituzionali, condizioni di apprendimento e di socializzazione che garantiscano a ogni bambino il diritto soggettivo all’educazione e consentano a ciascuno di sentirsi riconosciuto e accolto nella propria unicità e diversità. «Il bambino – recita ancora il documento – non è solo un piccolo che sta crescendo, destinatario di interventi e cure, ma è un soggetto di diritto che, all’interno della famiglia, della società e delle istituzioni educative, deve poter esercitare le prime forme di cittadinanza attiva. Dare valore e sostenere una rete di servizi educativi e scuole dell’infanzia per tutti, capaci di innovarsi, di rispondere a nuovi bisogni, di essere luoghi di benessere, di promozione di equità, di inclusione, di integrazione culturale e sociale, di conciliazione rappresenta un contributo importante all’attuazione degli articoli 2, 3 e 31 della Costituzione».
Esiste dunque la cura, che non è disgiunta dalla conciliazione. E le linee guida se ne occupano in questi termini: «Assistiamo ad una trasformazione del mercato del lavoro che si è sempre più precarizzato e deregolamentato, imponendo orari e tempi di lavoro non sempre prevedibili, diversamente collocati nelle ventiquattro ore della giornata e nei sette giorni della settimana. La precarizzazione dei contratti rende sempre meno esigibili i diritti di paternità e maternità da parte di molti giovani lavoratori. Le condizioni della donna lavoratrice, non essendo stata raggiunta una effettiva parità di genere, sono più difficili e portano spesso al licenziamento, anche volontario, dopo la nascita dei figli. La crisi economica e occupazionale collegata alla pandemia ha ricadute soprattutto sulle madri, rendendo ancora più evidente questa situazione di disparità. Non è pensabile che siano i servizi educativi da soli a far fronte a questi problemi, con improprie richieste di tempi troppo estesi di funzionamento, ma questi possono essere un tassello importante di politiche del lavoro che riconoscano i diritti dei bambini e dei genitori, costruendo una alleanza che coinvolge più soggetti, a partire dalle parti sociali. Questi cambiamenti sono concause dell’importante calo della natalità che registriamo nel nostro Paese come in altri Paesi occidentali. Investire sull’educazione può essere una risposta anche a questo problema».
Non riconoscere dei bisogni, che nei numeri dell’accesso al servizio trovano corrispondenza reale (dietro ai numeri ci sono persone) è quindi una sconfitta. Così come non è possibile dimenticare che i camp estivi spesso menzionati hanno dei costi, talvolta inaccessibili per le famiglie meno abbienti, e non possono rimanere l’unica soluzione. Così come non è pensabile calare dall’alto soluzioni impositive, relegate alla sola scuola per l’infanzia oggi elevata a terreno di scontro politico. La questione è seria, profonda, vera, percepita dalle cittadine e dai cittadini come urgente. Affrontare il tema del calendario scolastico, in tutti i suoi sfogli e non solamente dai 36 mesi ai 6 anni, è un limite. Cura, alleanza scuola-famiglie, risposte ai bisogni: la distensione proattiva di questi termini porta viceversa nell’altrove mai polarizzato della costruzione delle soluzioni. Queste sì, condivise.