Malattia mentale

domenica 6 Novembre, 2022

«Quel giovane malato psichiatrico non doveva entrare in carcere». Parla l’equipe sanitaria del penitenziario trentino

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Schizofrenico, recluso otto mesi nella casa circondariale di Spini di Gardolo: «Entrato in cella in marzo, i servizi psichiatrici territoriali gli hanno fatto visita soltanto in settembre»

«Non solo non doveva rimanere in carcere, ma non doveva nemmeno entrarci». Per quelli dell’equipe sanitaria della casa circondariale di Spini di Gardolo, che hanno incontrato il giovane ventenne schizofrenico che per otto mesi è stato confinato in una cella, non ci sono giustificazioni: «Il giovane era in carico dei servizi psichiatrici sul territorio, la sua situazione era conosciuta da anni, fin da quando era preadolescente. Una persona con una malattia psichica nota. Qui qualcuno ha voluto togliersi un problema».
Una grave accusa, che però è circostanziata: «Basti questo — affermano alcuni degli operatori — che dai primi di marzo, quando il giovane è entrato in carcere, i servizi territoriali gli hanno fatto visita solo a settembre. Sette mesi senza nessun contatto».
Ieri, su queste pagine, abbiamo raccolto lo sfogo della madre del ragazzo detenuto, che ora è stato scarcerato perché dichiarato incompatibile con il regime carcerario e incapace di intendere e volere nel momento dei fatti, quando le sue crisi si trasformavano in aggressività e violenza all’interno dell’abitazione. Dal carcere è stato trasferito nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Arco, dove — secondo il racconto della donna — nei primi giorni è stato addirittura legato. «Ecco — affermano gli operatori — se questo fosse vero sarebbe il fallimento della psichiatria, quella intesa come percorso integrato volto alla riabilitazione del malato. Almeno possiamo dire questo, che in carcere qui da noi il ragazzo non è mai stato legato. Abbiamo cercato di coinvolgerlo, di farlo socializzare, di convincerlo a prendere la terapia, di aiutarlo con l’igiene personale. Ma per tanto che noi si possa fare — ammettono — abbiamo un grande limite, che il carcere non è una struttura di riabilitazione psichiatrica».
E allora, cosa sarebbe servito per questo ragazzo? Come sarebbe stato possibile evitare la reclusione? «La madre ha raccontato, al giornale ma anche a noi, che sono stati gli stessi servizi sul territorio a suggerire di procedere con la denuncia, e alla denuncia è seguito l’arresto. La promessa era che solo così si sarebbe potuto intervenire per il meglio di suo figlio, ma non è vero. Tant’è che per sette mesi non si è fatto vedere nessuno». Gli operatori spiegano che questo non è il solo caso di malati psichiatrici «dimenticati» che da pazienti si trasformano in detenuti. «C’è chi è qui e che qui non dovrebbe esserci perché giudicato da tempo incompatibile con la detenzione. Ma le poche Rems (strutture adibite per gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi, ndr) sono piene, e allora si aspetta in carcere, contro la legge e contro la loro stessa dignità. E per questa pratica l’Italia è già stata sanzionata dalla Corte europea». Nel caso specifico del ragazzo schizofrenico di cui si è occupato «il T», per gli operatori la strada da percorrere sarebbe stata un’altra: «Era già seguito dai servizi psichiatrici territoriali, ma evidentemente senza alcun progetto. In questi casi, come in tanti altri casi, serve un approccio integrato. Bene le medicine, ma da sole possono ben poco se non c’è anche una comunità riabilitativa, lo psicologo, gli educatori psichiatrici». E non ci sono perché manca personale? «Questo è un dato oggettivo, ma in parte manca anche la voglia di prendersi in carico i casi difficili, preferendo occuparsi di situazioni più facili da gestire. È brutto da dire, ma non stupirebbe se qualcuno dei servizi, quando il giovane è stato incarcerato, abbia stappato una bottiglia. Per molti, quando un paziente psichiatrico è detenuto, è un problema in meno».