La storia

mercoledì 21 Febbraio, 2024

Patricia Avanzo, l’urban knitting e l’amore per l’arte: «Dipingo scarpe perché la loro storia racconta di noi»

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Patricia Avanzo, ex «Casa del bottone», ha introdotto a Trento l’urban knitting: «I negozi del centro sono ormai omologati. La mia arte? Istinto, non tecnica»

Potenza e bellezza delle storie. Potenza e bellezza che aumentano, quando le storie cambiano, evolvono, toccano altri approdi. È questo il caso di Patricia Avanzo. Tempo fa, molto tempo fa – prima della pandemia, spartiacque ineludibile – raccontammo della sua «Casa del bottone». Ne è stata la «regina» per quindici anni, in passaggio San Benedetto, tra via Belenzani e via Oss Mazzurana, nel cuore di Trento. Una merceria, paradiso di chi si dedica a taglio, cucito, maglia, hobby vari.
Il negozio e l’urban knitting
Era un piccolo, colorato, affascinante negozio che, tra i primi in Italia, si inserì nel solco di un fenomeno che sprizzava simpatia, serenità ed allegria. Sì, Patricia Avanzo ha portato a Trento l’urban knitting, una forma d’arte nata negli Stati Uniti nel 2005. Una pratica dai tratti quasi solidali, ecologici, ambientali. Si tratta di maglie e maglioni fatti indossare a statue, panchine, pali della luce, persino biciclette. Il suo negozio era diventato negli anni il punto di riferimento soprattutto di tante donne – poi amiche – accomunate dalla passione per tutto quello che è fatto a mano. Non solo. «Facevo raccolta differenziata creativa – racconta Patricia – e le clienti mi portavano vecchie cravatte che trasformavo in pantofole, rocchetti di filo che sono diventati tende, vecchi metri usati rinati come borse ed orecchini. Il tutto veniva restituito con creatività a nuova vita».
Contro l’omologazione
Stiamo scrivendo al passato, certo. «La casa del bottone» non c’è più, ha chiuso prima della pandemia che per Patricia – sorriso mai domo e una pronuncia dai tratti francesi inconfondibile e parte della nuova storia che stiamo per raccontare – ha significato anche un passaggio, a lieto fine, attraverso problemi di salute.
Certo, nel suo appartamento di Trento dove tutto, ma proprio tutto, è in stile vintage, tracce della «precedente» vita ve ne sono, ancora. Ma oggetti, mobili e suppellettili pazientemente recuperati in giro per i mercatini dell’usato o in certi negozietti che assomigliano tanto alla «casa del bottone» che fu, sono già parte della «nuova» Patricia. Che sente urgente una prima, necessaria considerazione: «Come possiamo accettare che tutti i negozi del centro siano gli stessi che trovi nelle altre città? Tutto omologato, tutto “incatenato”. Io organizzerei percorsi turistici che portino ad ammirare realtà commerciali fatte di cuore, passione, originalità, memoria. A Trento, per dirne uno, penso all’Osteria della Malombra».
«Le scarpe parlano di noi»
Beh, quanto a cose fatte con cuore, passione, originalità e memoria, Patricia Avanzo ne sta coltivando una davvero particolare. Da qualche anno si sta facendo conoscere, da artista autodidatta, «con la libertà di non avere tecnica da coltivare, ma solo istinto da seguire», per una scelta assai particolare. Dipinge scarpe. Sì, lasciati alle spalle urban knitting e differenziata creativa, nei giorni della pandemia – «ed è stata, ed è, anche un percorso terapeutico», sottolinea – ha iniziato a disegnare scarpe. Ritratti di scarpe. Dapprima disegni in bianco e nero, poi dipinti ad olio sempre più colorati, nei quali non v’è traccia di persone, bensì delle scarpe che le persone indossano. «Dapprima disegnavo solo le scarpe, e se erano due, una rimaneva sempre con spazi bianchi, non riempiti. Incompiuta. Adesso, nei dipinti ad olio, le scarpe sono protagoniste dentro gli spazi della casa, in camera, in salotto, in bagno. «La scarpa – dice – accompagna tutta la nostra vita, racconta di noi, si adatta al nostro passo. La scarpa parla da sola. Tutte le calzature che disegno sono vissute, hanno una storia ed è come raccontassero anche le storie di chi le ha indossate o le indossa ancora».
Mentre coccola Berta, la gatta di casa (o è Berta che coccola lei?) non può fare a meno di raccontarci quello che è una sorta di cruccio. «Quando sanno che dipingo scarpe, immancabile arriva una domanda che ogni volta mi lascia stupita e non poco basita. Mi chiedono: ma sei feticista? E io penso: ma davvero è solo questo ciò che sanno dire, in molti? Ed invece è un bisogno che fa parte di me, di quella ricerca del bello e dell’autentico che rivendico con forza, in un mondo piegato all’omologazione».
Le radici a Bruxelles
Insomma, un gesto artistico che ha già conosciuto le prime, timide mostre, ma che prescinde da ogni logica commerciale o di successo. Piuttosto la prosecuzione di una esistenza creativa che ha radici in esperienze di vita particolari. L’arte ha segnato la giovinezza di Patricia. Quel suo inconfondibile accento francese ha una spiegazione semplice. Lei nasce a Bruxelles, papà Floriano (conosciuto come Floriò) è di origini trentine, mamma Jeannine è francese. I genitori gestiscono un caffè nel cuore della capitale belga: «Chez Florio». Siamo negli anni Sessanta, Bruxelles pullula di locali, la vita notturna è ricca. La piccola Patricia non lo sa, allora: ma il locale di mamma e papà è uno dei ritrovi preferiti di artisti e musicisti, rock e jazz. «Ci entrava spesso – racconta – Maurice Béjart, il grande coreografo francese, che in quegli anni viveva a Bruxelles». Ma «Chez Florio», aperto ben oltre la mezzanotte, era frequentato anche dai surrealisti, dagli artisti del Gruppo Cobra e dai provos belgi che, sull’onda dei cugini olandesi e dei movimenti beat e di contestazione, lanciavano la loro sfida al quieto vivere e al «vecchio mondo». Tutto questo finisce quando Patricia ha 14 anni. I genitori tornano in Italia, la famiglia si trasferisce a Pieve Tesino. «Posso capire la scelta dei miei, la fatica di gestire per anni “Chez Florio”, con quegli orari, era grande. Vi lascio immaginare però cosa è stato per una ragazzina passare da Bruxelles a Pieve Tesino». Si rimbocca le maniche, comunque. E per un anno lavorerà anche in una fabbrica di stivali. Eccole, le calzature. «Un lavoro di m…, sempre attaccata ad una macchina che sputava stivali su stivali». Eppure, guarda un po’, «il mio sogno era quello di fare la calzolaia e per alcuni mesi ho lavorato da un artigiano, in zona». Ne farà altri, di lavori, prima di approdare a Trento. Ora, in attesa della più che meritata pensione, tra un ritratto di scarpe e l’altro, coltiva anche la passione che l’ha sempre accompagnata, fin da bambina. Leggere, leggere molto. In particolare, le biografie di quelle donne che si sono fatte largo nel mondo dell’arte. Un cammino spesso faticoso, consumando tante e tante scarpe…