L'intervista

martedì 20 Maggio, 2025

Paolo Ruffini: «Il politicamente corretto? Volgare, il contrario dell’arte che dev’essere libera. Bambini e disabili hanno la capacità di essere sé stessi»

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L'attore sarà a Trento in occasione del Festival dell'Economia con il suo spettacolo «Din Don Down». «Un giorno una bambina mi chiese: "Ma se i vecchi si chiamano così, perché noi non ci chiamiamo i nuovi?" Aveva ragione. Investiamo sui giovani anche nelle parole»

È un viaggio che incanta, diverte e fa riflettere, quello dello spettacolo «Din Don Down» che Paolo Ruffini, insieme a Claudia Campolongo e alla Compagnia Mayor Von Frinzius, porterà sul palco dell’Auditorium Santa Chiara sabato 24 maggio alle 21, nell’ambito del Fuori Festival dell’edizione 2025 del Festival dell’Economia di Trento. Dissacrante e sfidante del politicamente corretto, lo show si inserisce tra i numerosi lavori di Ruffini con le persone con disabilità, affiancati ai format di interviste con bambini e anziani. A unire queste diverse attività è il filo rosso dell’ascolto e del racconto di storie, dalla cui semplicità e spontaneità emerge la potente e necessaria importanza dell’essere sé stessi.

Ruffini, sarà al Festival dell’Economia con lo spettacolo «Din Don Down», definito dissacrante e sfidante del politicamente corretto. Come sarà?
«Il senso dello spettacolo è la ricerca del sacro e di Dio, che molto spesso è in realtà la ricerca del proprio io, in un’epoca in cui vogliamo essere onnipotenti e perfetti, in cui scegliamo attraverso elementi social più che sociali. Per quanto riguarda il politicamente corretto, io credo sia una delle cose più volgari che esista attualmente: è il contrario dell’arte che per definizione è libera di esprimersi, perché se qualcuno si indigna non significa che sia nel giusto. La disabilità non è un tabù: la vera integrazione sarà quando non distingueremo più un attore con disabilità dagli altri, come non distinguiamo un attore biondo da uno moro. Per questo, non è da abbinare solo a concetti seriosi e moralisti, ma anche alla comicità, all’essere dissacranti e caustici».

Cosa pensa dell’inserimento del suo spettacolo nel palinsesto del Festival dell’Economia?
«Sono felice di essere stato invitato a un Festival sull’economia, perché mi occupo di altri ambiti e, per non risultare inadeguato, adesso vado a cercare la definizione di economia sul dizionario… eccola: “Impiego razionale; cauta, oculata e parsimoniosa amministrazione del denaro e di qualsiasi altro mezzo”. Adesso ho capito perché sono stato invitato! Arriviamo a qualche settimana dall’appello alla sobrietà per rispetto a Papa Francesco che, se me lo immagino, lo vedo ridere e scherzare, non di certo sobrio… Questo dimostra come ci troviamo in un momento storico in cui si sta facendo molta economia di valori come felicità, fede e cultura, della gioia e della risata, persino del nostro io. E su questo posso proprio esprimere la mia opinione».

Perché?
«Perché noi non crediamo più alle cose belle e vere, mettiamo dei filtri, non abbiamo voglia di esprimere al massimo il nostro potenziale né i nostri sentimenti, siamo impauriti dalle nostre opinioni e dal giudizio altrui, trovandoci così a vivere in una società asettica. Ma non può esserci un’economia della vita. Io lavoro con persone con sindrome di Down, che non hanno filtri né mediano sé stesse. E questo possibile svantaggio rientra invece nella gamma di vantaggi eccezionali: sono io a vedere una disabilità in me, perché riesco a mutuare me stesso, a non dire qualcosa, e non vedo invece una disabilità nel mio collega con la sindrome Down che non riesce a essere parsimonioso ed economico su sé stesso. Allo stesso modo sono i bambini, con la capacità feroce e illimitata di essere sé stessi».

A proposito di bambini, li intervista nel suo format «Il babysitter», affiancato a «Il badante», in cui interloquisce principalmente con anziani. Cos’hanno in comune?
«Innanzitutto, io non ho mai sentito dire “la saggezza dei quarantacinquenni”, ma ho sempre sentito parlare di saggezza dei bambini o degli anziani. Quando si è bambini o anziani, infatti, si risponde meglio alla domanda “Chi sei?”: “Sono uno che sogna gli arcobaleni che si appoggiano sulle nuvole” oppure “Sono una persona che ha vissuto una vita dolorosa” identificano molto meglio del mestiere o del carattere che si utilizzano, per descriversi, nell’età di mezzo. Sono risposte a domande esistenziali che diventano liriche e straordinarie nella misura in cui arrivano semplici e scandite. Poi, un tema che li accomuna è quello della capacità di memoria, perché quando si è piccoli non si ha e quando si invecchia si perde, mentre nella terra di mezzo ci fa distrarre e preoccupare. I bambini e gli anziani, invece, hanno un senso del presente molto più forte, un menefreghismo straordinario di tutti i meccanismi che governano la vita quotidiana che li rende delle opere d’arte e ci restituisce il valore vero della vita stessa».

Di tutti gli incontri che ha avuto, ce ne può citare alcuni che l’hanno particolarmente colpita?
«Una bambina di nome Sara, un giorno, mi ha raccontato che gioca sempre solo con la testa di una delle sue bambole rotte, che questo è un problema grave per lei ma, ciò nonostante, ci gioca volentieri. Mi ha detto che all’inizio ha pianto, ma poi è diventata felice senza risolvere i problemi: ha riassunto così ciò che gli adulti cercano con anni di psicoterapia, ossia accettare il dolore. Sabrina, invece, mi ha chiesto una cosa stupenda: “Perché i vecchi si chiamano vecchi e noi bambini non ci chiamiamo nuovi?”. Ecco, io questa la trovo una vera domanda: abbiamo sempre chiamato “vecchi” le persone a cui non volevamo più dare considerazione, e non abbiamo mai chiamato “nuovi” coloro che incideranno sul nostro tessuto sociale. Da una parte non diamo valore alle persone che hanno vissuto una vita per portare avanti il Paese e dall’altra riteniamo poco interessanti coloro che sono veramente il futuro. È per questo che credo sia fondamentale un’educazione che sia emotiva e non solo nozionistica».

Qual è, quindi, il valore dell’educazione?
«Forse la soluzione per i mali del mondo è proprio l’educazione, incentrata sul restituire ai bambini un valore sociale fondamentale nella vita di oggi: credo serva dare loro uno spessore emotivo e culturale, cercare di istruirli e indirizzarli per, attraverso di loro, indirizzare anche noi adulti a un mondo che si avvia ad essere un po’ più complesso rispetto a prima. Un mondo dove non è mai stato così facile essere cattivi attraverso la tastiera, dove tra le tante economie c’è anche quella della vita».