il personaggio
lunedì 4 Novembre, 2024
di Giacomo Polli
Nato all’ombra del castello di Arco 57 anni fa, Nicola Ulivieri è cresciuto musicalmente a Bolzano per poi fare ritorno nell’Alto Garda negli anni 2000. Grazie ad un percorso iniziato da ragazzo, che lo ha portato a cantare nei teatri più importanti al mondo, è ad oggi tra i cantanti lirici più famosi in Italia. Nel corso della sua carriera, tra le altre cose, ha ottenuto il Premio Abbiati, un prestigioso riconoscimento della critica Italiana che ha voluto premiare le sue interpretazioni mozartiane. Ora, il prossimo sette novembre, andrà in scena a Parigi.
Da dove parte la sua passione per il canto?
«Sono nato ad Arco e poco dopo mi sono trasferito a Bolzano. Sono tornato a vivere nell’Alto Garda quasi vent’anni fa. Mio padre è stato violinista per l’orchestra Haydn per tutta la sua carriera professionale e quando ero bambino studiavo questo strumento con lui. Verso i 18 anni ho poi deciso di provare con il canto e ho conosciuto il maestro Vito Maria Brunetti, che è stato il mio insegnante al conservatorio e lo è tutt’ora. Ancora oggi, nonostante quest’ultimo abbia 89 anni, vado a lezione da lui. Sono stato davvero fortunato ad incontrarlo».
E da quanto tempo fa questo mestiere?
«Studio canto dal 1987. Prima di finire il conservatorio sono entrato nel coro dell’Arena di Verona, nel 1990. Successivamente ho fatto parte del coro della Scala fino al 1995, anno in cui è iniziata la mia carriera da solista dopo la vittoria del lirico sperimentale di Spoleto».
Negli anni ha cantato nei teatri più importanti al mondo…
«Ho provato un’ emozione fortissima quando ho cantato al Colón di Buenos Aires. È un teatro circolare enorme, uno dei più grandi al mondo. È entusiasmante perché il pubblico in Argentina ascolta l’opera con grande entusiasmo e questo si avverte molto. È stato molto emozionante anche quando ho cantato al Metropolitan di New York o alla Scala di Milano. Ho, però, sempre più piacere a cantare per quei popoli che apprezzano senza troppo giudizio, come ad esempio in Sudamerica».
In Europa sono più critici?
«Sì, ma non in tutti i posti. In Svizzera, ad esempio, l’opera è sentita molto. Nel teatro di Zurigo si fanno anche 7 recite di seguito della stessa produzione, riprendendola anche negli anni successivi, riuscendo sempre a riempire tutti i posti. Da noi, invece, ne fanno 3 o 4 e questo è davvero triste».
E a cosa è dovuta questa situazione?
«Non so spiegarmi il perché. Penso sia una questione di educazione nelle scuole. In quelle austriache, tedesche, svizzere o francesi c’è più attenzione alla cultura e quindi crescono generazioni che hanno voglia di sperimentare questo tipo di spettacoli. I costi del teatro non aiutano e questo probabilmente è un fattore che incide. Alla base, però, credo ci sia davvero una poca educazione verso la cultura e verso questo tipo di spettacoli. Dovrebbe essere una cosa vista con più orgoglio ed entusiasmo prima di tutto da chi ci governa».
Ha avuto anche tanti direttori d’orchestra importanti…
«I migliori direttori d’orchestra sono quelli che ti fanno andare in scena sereno. Ce n’è uno in particolare che prima di ogni recita diceva “divertiamoci”, era Claudio Abbado. Ho avuto la fortuna di averlo nei primi anni della mia carriera, è stato davvero un grande direttore e lo rimpiango molto».
Quali sono i prossimi appuntamenti in agenda?
«Domani parto per Parigi e il sette novembre ho in forma di concerto l’opera di Rossini “Le Comte Ory” in francese. Ogni tanto ho questo tipo di responsabilità non indifferenti (ride, ndr)».
E con l’Alto Garda che rapporto ha?
«Sono sempre molto disponibile a partecipare alle iniziative culturali che si svolgono in regione. A volte mi viene chiesto e quando posso partecipo. Lo scorso anno ad Arco ho fatto un concerto gratis in cui ho voluto portare il mio percorso artistico. Due anni fa, invece, ho fatto la regia di un Don Giovanni che è andato in scena allo Zandonai di Rovereto. A gennaio 2025, con la fondazione Haydn, faremo invece il Barbiere di Siviglia a Trento».
Qual è la difficoltà principale nel suo mestiere?
«Passare da una cosa all’altra è molto difficile. Una volta si facevano tante recite della stessa produzione, mentre ora si cambia spesso, repertorio compreso».
Cosa significa per lei cantare l’opera?
«Mi sento un portatore della cultura italiana, è come se fossi un lottatore di sumo giapponese. Cantare l’opera è uno dei mestieri più italiani al mondo ed è veramente bello».
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