La rubrica
giovedì 2 Ottobre, 2025
«L’ultimo turno» e il ritmo (realistico) delle corsie, la divina Duse a rischio eccesso, la solidità de «La valle dei sorrisi»: cosa vedere al cinema
di Michele Bellio
Tre recensioni e una perla da recuperare: «C'era una volta il West», il capolavoro di Sergio Leone, con Claudia Cardinale

L’ULTIMO TURNO
(Heldin, Svizzera/Germania 2025, 92 min.) Regia di Petra Biondina Volpe, con Leonie Benesch
Presentato all’ultima Berlinale, il terzo lungometraggio della regista svizzera dichiara da subito le proprie intenzioni, fin dal titolo originale, che significa eroina. Tale è secondo lei la protagonista del film, Floria, infermiera di un ospedale svizzero, che si trova ad affrontare il consueto turno serale in una situazione di sovraffollamento del reparto e di carenza di personale. La macchina da presa la insegue per tutta la durata del film, documentando in modo incredibilmente realistico il suo dedicarsi interamente alle persone che deve seguire, dalla preparazione di farmaci e medicazioni, fino alla parola di conforto.
Il crescendo è incredibile e travolgente, la missione della protagonista assume contorni quasi thriller mentre il tutto prende la forma di una frustrante lotta contro il tempo, ritmata sugli ininterrotti suoni del reparto, dal campanello che segnala le richieste dei pazienti, all’insopportabile squillo del telefono, spesso legato a richieste futili (gli occhiali dimenticati), ma che danno la misura dell’umanità variegata che si muove fragile in queste stanze. I medici sono una presenza lontana, costantemente alle prese con un’emergenza più grande di quella legata alla quotidianità di anziani e malati terminali, e quando appaiono è per tracciare una sorta di divario tra la loro professione e quella degli infermieri. Retto dall’incredibile performance della protagonista, L’ultimo turno mette in guardia il mondo su un mestiere difficile, poco valorizzato e faticoso, che quasi nessuno sembra più voler fare e che metterà presto il pianeta in condizioni di carenza non sostenibili, come recita l’agghiacciante didascalia finale.
Talvolta facile sotto il profilo della narrazione, con i pazienti che incarnano temi di vario genere (dall’arroganza dei ricchi protetti da assicurazioni private, alla scarsa considerazione nei confronti dei più indigenti), il film è però innegabilmente coinvolgente e riesce a restituire con potenza sia la realtà ospedaliera (non ci si nasconde di fronte al cambio di un pannolone), sia la dimensione privata della protagonista, il tutto con una capacità di sintesi che lascia colpiti. Molte le scene che restano impresse, dalla canzone consolatoria alla ricerca dell’orologio. Da vedere.
DUSE
(Italia/Francia 2025, 120 min.) Regia di Pietro Marcello, con Valeria Bruni Tedeschi, Fausto Russo Alesi
Titoli di testa: un plastico di soldatini immersi nella nebbia ci trasporta sul finire della Prima Guerra Mondiale. In questo scenario appare la divina Eleonora Duse, che giunge in un accampamento per incoraggiare i soldati a proseguire la loro missione. L’attrice manca dalle scene da quasi dieci anni, ma il suo mito è più vivo che mai: simbolo dell’eccellenza italiana, incarnazione di un’arte capace di trascendere la comprensione comune e al tempo stesso di fornire un punto di riferimento rassicurante. Su questa riflessione Pietro Marcello costruisce il cuore del film, mettendo in scena gli ultimi anni di vita della grande attrice, scomparsa nel 1924. Ne emerge una figura totalmente devota al teatro, al punto da sacrificare la vita privata: il rapporto conflittuale con la figlia si contrappone alla complicità con la devota assistente Désirée. Tornata per necessità sulle scene, nonostante la salute minata dalla tisi, dovrà fare i conti con un mondo in rapido cambiamento. Per chi si muove attorno a lei l’attrice diventa un simbolo da sfruttare, soprattutto per il nascente regime fascista, che ne riconosce la forza come icona culturale e, in quanto tale, tenta di “acquistarla” e di renderla inoffensiva. E poi c’è Gabriele d’Annunzio, per cui lei fu musa ispiratrice, in un tormentato rapporto d’odio e amore magnificamente retto dalle interpretazioni dei protagonisti.
Se Valeria Bruni Tedeschi, a forte rischio di eccesso, offre una prova maiuscola e a tratti respingente per lo spettatore, restituendo perfettamente i continui alti e bassi della divina, il d’Annunzio di Fausto Russo Alesi è carnale e impregnato di ineluttabilità, ritratto di un uomo consapevole che la sua stagione è ormai finita. Marcello, fedele alla sua poetica ma con toni meno radicali che in passato, intreccia materiale d’archivio e finzione, facendo del viaggio del treno che trasporta la salma del Milite Ignoto un controcanto simbolico alla parabola della protagonista. Colpisce la capacità di evocare atmosfere: la Venezia immersa nella nebbia, la laguna sospesa, il teatro decadente del Vittoriale come gabbia dorata per una delle personalità più influenti del tempo (dunque un pericolo per il regime). Non è un film semplice e in alcuni aspetti può risultare non del tutto condivisibile, come nella riflessione sul rapporto con il passato, esplicitata nella scena con Sarah Bernhardt e poi ribadita nel fallimento della pièce di Giacomino. Ma nel bene e nel male, Duse resta un’opera ambiziosa che interroga una figura fondamentale della nostra storia culturale, scegliendo di riflettere sul mito e sul tentativo della politica di piegarlo al proprio volere, senza però mai affrontare le motivazioni (modernità, tecnica, anticonvenzionalità, capacità di rendere attuali i drammi dei suoi personaggi) che valsero alla Duse l’appellativo di “divina”.
LA VALLE DEI SORRISI
(Italia/Slovenia 2025, 122 min.) Regia di Paolo Strippoli, con Michele Riondino, Giulio Feltri, Paolo Pierobon, Roberto Citran, Romana Maggiora Vergano
VIETATO AI MINORI DI 14 ANNI
Presentata fuori concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, la terza opera da regista di Paolo Strippoli (che esordì in coppia con Roberto De Feo con A Classic Horror Story) sorprende per compattezza tecnica, originalità stilistica e solidità narrativa. A Remis, paesino abbarbicato sulle montagne, arriva Sergio, nuovo supplente di educazione fisica: depresso, burbero e alcolizzato, porta con sé il peso di una tragedia personale. Anche Remis soffre per un evento che ne ha segnato il passato: una strage ferroviaria che nel 2009 ha ucciso oltre quaranta persone. Eppure gli abitanti sembrano stranamente sereni, quasi eccessivamente felici. Una sera, dopo una bevuta eccessiva, Sergio scopre il mistero del paese, il cui protagonista è il suo studente Matteo, un adolescente misteriosamente capace di assorbire il dolore degli altri. Ricco sotto il profilo dei contenuti, il film affronta temi profondi e complessi come l’elaborazione del lutto collettivo, il ruolo del dolore nella formazione dell’individuo, le diverse forme della paternità, la crescita come perdita dell’innocenza. La messinscena è curata ed elegante e culmina in un crescendo finale disperato, potente e, almeno per il nostro cinema, inusitato. Retto da un cast ben scelto e altrettanto ben diretto, che valorizza appieno il giovanissimo protagonista, ma tira fuori il meglio dal padre di Paolo Pierobon (quella sigaretta elettronica…) e dall’inquietante parroco di Roberto Citran, il film gioca abilmente con atmosfere che portano il thriller sovrannaturale a sfociare nell’horror, ma si porta dietro una tangibilità, un senso della sofferenza e una capacità di lasciar parlare volti e luoghi che vanno oltre al prodotto commerciale per parlare di temi universali. Un film profondamente e ambiziosamente triste nella sua volontà di rivendicare il dolore come necessità alla completezza dell’essere umano, la cui accettazione richiede coraggio. Non per tutti i gusti, ma da affrontare sia per scoprire un talento genuino, sia per dimenticare facili luoghi comuni su un genere spesso incompreso o sottovalutato.
STREAMING – PERLE DA RECUPERARE
C’ERA UNA VOLTA IL WEST
DISPONIBILE SU RAIPLAY
(Italia 1968, 159 min.) Regia di Sergio Leone, con Claudia Cardinale, Henry Fonda, Charles Bronson
Lo scorso 23 settembre è scomparsa Claudia Cardinale, una delle più grandi attrici del nostro cinema, simbolo di una generazione straordinaria e di un’epoca che ha segnato l’immaginario collettivo. Su RaiPlay sono molti i titoli a disposizione per rivedere le sue più grandi interpretazioni, ma, a costo di apparire banale, io per ricordarla ho scelto uno dei grandi film di Sergio Leone. L’ho fatto perché il western è tradizionalmente associato a protagonisti maschili e a vicende virili, anche se esistono numerosi esempi di personaggi femminili di grande rilievo. Il personaggio di Jill nella monumentale epopea leoniana è originale sotto molti punti di vista. In passato prostituta d’alto bordo, donna consapevole e intenzionata a vivere la propria vita liberamente, si trova il futuro sconvolto dal crudele Frank interpretato da Henry Fonda ed è costretta a modificare i suoi piani. Ma grazie alla sua intelligenza e al suo fascino riesce a imporre la propria presenza di fronte ai personaggi maschili del film, affrontando situazioni di violenza e ricatto, ed emerge come figura centrale all’interno della vicenda. Claudia Cardinale incarna questo personaggio con un’energia, un fascino ed una forza ancora oggi stupefacenti e il suo arrivo alla stazione resta una delle più belle presentazioni di un personaggio femminile dell’intera storia del cinema. Accanto a tutto ciò: la maestria tecnica di Leone, le musiche di Ennio Morricone, un cast in stato di grazia e un soggetto firmato dal regista insieme a Bernardo Bertolucci e Dario Argento. Non serve dire altro.
Cultura
Hello Kitty, meme virali e i gatti inventati dall’AI: il «Meow Factor» dei felini diventa arte (e specchio del nostro tempo) nella mostra di Carlo Chiusi
di Stefania Santoni
La mostra in agenda a Cellar Contemporary invita lo spettatore a muoversi tra piani e linguaggi, tra passato e futuro digitale