Carcere

giovedì 23 Maggio, 2024

Luca, corriere della droga per caso: «In carcere? Noia. Servono attività»

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Il racconto di chi è rinato imparando dai propri errori

«Spesso mi sembra di essere sempre considerato un ex detenuto, malgrado la mia vita sia
andata avanti». Così, Luca (il nome è di fantasia) ripercorre la sua vita. I debiti improvvisi,
difficili da sostenere, la scelta di diventare corriere della droga, il carcere prima a Milano e poi a Spini di Gardolo. E la vita ripresa in mano, diventando imprenditore in ambito edile. Una esperienza, quella della privazione della libertà, che oggi racconta riconoscendo gli errori e i limiti del sistema penitenziario italiano.
Ci racconta quando e per quale ragione è stato in carcere? Come è stato arrestato?
«Sono stato arrestato nel 2006 per un reato di trasporto internazionale di stupefacenti, facevo il corriere, tra valigia e ovuli stavo trasportando circa 4 kg di cocaina. Sono stato fermato all’aeroporto di Milano, per via di intercettazione di alcuni messaggi. Prima di entrare in questo giro gestivo una discoteca a Trento assieme ad un socio, io mi occupavo della parte organizzativa mentre lui doveva occuparsi di quella legale ed economica. Il mio socio è scappato in Colombia lasciando un debito di 8 anni di contributi e tasse non versate, per un totale di un milione e trecento euro. Non sapevo dove sbattere la testa, il rischio per frode fiscale era comunque il carcere, ho cercato di tirarmene fuori in qualsiasi modo e sono caduto in questo giro».
Ci spiega come funziona la vita in carcere? Qual è una giornata tipo?
«Metto una parentesi. Io quando ero a Busto Arsizio ero in una sezione che era aperta, quella dei definitivi. Lì la mattina alle 8:30 9:00 aprono tutte le celle, le richiudono una volta durante la giornata per mezz’oretta, tempo necessario per contare i detenuti, poi vengono riaperte fino alla sera alle 5:30/6. Tu puoi girare per il corridoio ma la maggior parte delle persone, a meno che non voglia proprio sgranchirsi le gambe, sta nella propria cella. C’è anche la possibilità di fare comunità: andare nelle altre celle per la cena, ad esempio. La mattina ti svegliano battendo sui ferri per controllare che non siano stati manomessi, poi passa uno con un carrello offrendo caffè annacquato. Durante la giornata stai seduto, ti guardi la tv, fai le parole crociate, ogni tanto c’è qualche giornale che gira, fino a quando poi il carcere propone anche delle varie alternative, dei progetti. A Busto Arsizio ho partecipato ad un progetto di teatro, durato due anni. Abbiamo messo in scena la rappresentazione rivisitata di Pinocchio, il musical. Io facevo sia parte del gruppo musicale che di quello di teatro. Dentro se hai soldi hai la possibilità di richiedere ciò di cui hai bisogno, le prime cose che si prendono solitamente sono il fornelletto a gas e la moka per il caffè, spesso però vengono lasciate in eredità dagli ex detenuti».
Come descriverebbe la sua esperienza in carcere? Si è sentito supportato, aiutato a tornare nella comunità? È davvero un contesto rieducativo?
«Mi sono trovato davvero male, soprattutto nei primi sei mesi. Condividevo infatti la cella con un gruppo di persone molto aggressive dalle quali mi sono anche dovuto difendere, per cui, a seguito di questo evento, sono stato trasferito in un’altra stanza. Sono riuscito ad esprimermi e a passare il tempo con la musica, sono stato addirittura allievo di Renato Capossela, il percussionista dei Nomadi, con cui ho avviato un progetto che prevedeva la formazione di una banda, con la quale mi sono esibito anche in altre carceri, con l’appoggio della direzione Ho inoltre scoperto il teatro grazie ad Elisa Carnelli, la mia insegnante di teatro, con la quale abbiamo inscenato una rappresentazione di “Pinocchio”. Il supporto psicologico mi è stato fornito dai detenuti più anziani anziché dal personale preposto, al quale l’aiuto è stato da me invano richiesto, in più ho conseguito la maturità all’interno della struttura, oltre al brevetto da conduttore cinofilo. Una volta uscito dal carcere mi sono sentito solo, e nel mio caso sono stato lasciato a me stesso senza neanche i soldi per il biglietto fino a casa, nonostante tornarci per scontare i domiciliari».
Ha avuto esperienze di diverse carceri? E se sì quali differenze ha notato? Dentro al carcere si riescono a costruire relazioni? Con altri detenuti o con il personale penitenziario?
«Dentro il carcere con i detenuti si riesce parzialmente a costruire legami. A Busto Arsizio ho avuto brutte esperienze oi però ci sono anche gli altri detenuti che mi hanno aiutato, mi hanno sostenuto, mi hanno consigliato e mi hanno fatto anche integrare nel carcere. Infatti a Busto Arsizio ero diventato persino il cuoco del carcere. Inizialmente ero diventato lo spazzino della sezione, dopodiché alcuni avevano mangiato nella mia cella dove cucinavo io e con questo riuscivo a costruire relazioni anche con altri detenuti. In carcere si cucinava con quello che c’era, arrivava quella poca cosa, e in più bisognava tenere conto che c’erano i musulmani. Nel primo giorno in cui ho lavorato in cucina è arrivato un blocco di pollo che per 400 persone era veramente poco e mi hanno detto di prepararlo e io ho cucinato un piatto domenicano. Quando sono arrivato in sezione i detenuti mi hanno fatto l’applauso e da lì ho continuato a cucinare. Le guardie all’inizio sono tutte schive perché le guardie non sanno mai perché sei lì. Poi successivamente ti prendono a cuore e c’è anche un po’ di ironia. A Trento invece partono un po’ prevenuti; infatti un giorno mi hanno portato in una cella isolata con i manganelli, sono finito in ospedale».
E con l’esterno? Come funzionano i contatti con i familiari?
«Per comunicare con l’esterno si usano molto le lettere scritte a mano, munite di francobolli. L’acquisto di essi era possibile effettuarlo dentro le carceri, ma la gran parte delle volte li regalava Padre Fabrizio Forti. Ogni cella in cui lui passava lasciava sempre due o tre francobolli per aiutare i detenuti. Oltre alle lettere, due volte a settimane, si potevano ricevere delle visite. Nel carcere di Busto Arsizio, per le persone che abitavano lontano, c’era la possibilità di fare richiesta per stare tutto il giorno coi parenti (al massimo cinque persone). Le visite si effettuavano dentro le carceri in una sala dedicata. I familiari trascorrevano cinque ore con il detenuto, nelle quali potevano anche mangiare in compagnia il cibo preparato precedentemente dal detenuto».
C’è qualcosa del sistema detentivo che andrebbe cambiato?
«Non sono nessuno per dare lezioni ad altri, l’unica cosa che posso dire in base alla mia esperienza è innanzitutto occupare di più il tempo delle persone all’interno perché se iniziano a pensare ad altre cose, continuano a confabulare su cosa fare fuori. Gli dai la lezione di teatro, di musica, la scuola, sono tutte cose che vanno ad impegnare la mente, ti fanno distrarre da quello che potrebbe essere il tuo automatico obiettivo di tornare a fare quello che già avevi fatto. Occupare il tempo molto di più rispetto ad adesso, e non solo selezionare quei pochi ma dare l’opportunità a tutti. Occupare il tempo delle persone perché lì dentro… si sente poco dei suicidi in carcere ma ce ne sono tantissimi, ma non si sentono, perché non hanno voce, è tutta gente che è li, tace, nessuno sa niente. Gente che gli viene la depressione, finisce per prendere il metadone e gli altri psicofarmaci, quando basterebbe occupare di più il tempo delle persone, dare un obiettivo».
Ci racconta la sua vita oggi?
«Ho un lavoro nell’edilizia, una figlia con cui ho instaurato un magnifico rapporto uscito dal carcere.Non mi sento di essere cambiato, ma sicuramente non ricommetterei gli stessi errori. Pregiudizi …rimani schedato, mi sento etichettato molto spesso. Gli amici rimasti? Li posso contare sulle dita di una mano. Mia madre c’è sempre stata».