Editoria

mercoledì 7 Dicembre, 2022

L’Atene di Giorgio Ieranò. Storia di una città

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Nel suo nuovo libro lo studioso svela i molteplici volti della città dei sogni

Cicerone l’ha definita «madre delle arti e della filosofia».
Nella sua piazza principale, l’agorà, fra bancherelle e botteghe, sotto i portici delle costruzioni che vi si affacciavano, si è sviluppato il dibattito democratico.
Nei suoi venticinque secoli di vita non ha mai smesso di attrarre viaggiatori che continuano ad alimentarne il mito.
È Atene, culla della civiltà occidentale, e a lei Giorgio Ieranò, docente di Letteratura greca all’Università di Trento, ha dedicato il suo ultimo libro, Atene. Il racconto di una città (Einaudi, pp. 240, € 21,00), da pochi giorni in libreria.
Ogni monumento, piazza, angolo, diventa racconto che si apre ad altri racconti in un tessuto intrecciato con i fili di mito, storia, arte e sguardi di viaggiatori intimiditi dalla magnificenza delle testimonianze del suo passato. Pagina dopo pagina si è invitati a non fermarsi soltanto all’Atene universalmente nota dell’età classica, ma a scoprirne i suoi molteplici volti, quelli mimetizzati in un contesto oggi fortemente alterato da demolizioni (soprattutto del XIX secolo) e da frenesia costruttiva del secondo dopoguerra, oppure quelli defilati, come il quartiere di Anafiotika, «bizzarro pezzo di Egeo traslocato ad Atene», e i cimiteri dell’Atene classica e neoclassica, il Ceramico e il Proto Nekrotafio Athinòn, in cui «ogni tomba, oggi come ieri, racconta una storia ed evoca le esistenze di uomini più o meno illustri».
Professor Ieranò, nell’Atene di oggi come si conciliano storia, memoria e politica?
«Il rapporto dei greci di oggi con il loro passato è complesso. Da un lato esiste un culto della grecità i cui santuari sono, ovviamente, i monumenti antichi: il Partenone come immagine di perfezione assoluta, l’Agorà come culla e spazio simbolico della democrazia universale. D’altro lato, in Grecia resta forte anche il senso di un’identità popolare che rimanda all’impero bizantino e attraversa i secoli della dominazione turca in modo indipendente dai modelli classici. Nonché un sentimento ambiguo verso l’Europa, di cui i greci, non a torto, si sentono padri fondatori, ma dalla quale si sentono spesso traditi, com’è successo anche di recente con l’imposizione di misure economiche inique che hanno prodotto una crisi senza precedenti».
Il turismo di massa, che assale l’Acropoli di Atene e gli altri siti classici, riesce a cogliere quell’aura che i viaggiatori dei secoli scorsi vedevano aleggiare sulla città?
«Credo che per la Grecia il problema non sia tanto quello del turismo di massa, fenomeno universale e probabilmente irreversibile, che ha cambiato l’aspetto e le atmosfere di molti angoli del mondo. Il fatto è che la Grecia non è solo spazio geografico, ma anche luogo dello spirito. Spesso si viaggia portandosi dietro quei pregiudizi e quell’immagine idealizzata (e talvolta stereotipata) della grecità che abbiamo ereditato da secoli di tradizione occidentale, dalle fantasie del neoclassicismo, dai libri di scuola. Si resta attaccati ai luoghi comuni della Grecia da cartolina e ci si avvicina ai monumenti come fossero icone senza tempo. Quello che il mio libro cerca di fare è invece di inserirli nella loro storia, drammatica e avvincente».
Come mai l’Atene bizantina e l’Atene ottomana risultano «perdenti» davanti a quella classica?
«Perché tutti noi tendiamo a considerare la Grecia antica come l’unica vera Grecia. E perché i sovrani stranieri, bavaresi e danesi, che hanno regnato in Grecia nell’Ottocento, hanno promosso un restauro dei monumenti antichi che cancellasse ogni traccia del Medioevo e della dominazione turca, considerati periodi di barbarie o di decadenza. Eppure, fino al 1875 l’Acropoli era dominata da un’altissima torre medievale costruita dai duchi fiorentini della famiglia degli Acciaiuoli, allora signori di Atene: fu Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia, a convincere il re di Grecia a demolirla. Un atto di vandalismo compiuto in nome della cultura classica».
Nei primi anni dell’Ottocento, col beneplacito del governo ottomano, l’ambasciatore inglese a Costantinopoli Lord Elgin ha trafugato da Atene, fra gli altri, i marmi di Fidia del Partenone, una delle Cariatidi dell’Eretteo… Il mondo ottomano non era stato affascinato dall’antichità classica così come quello Occidentale?
«In realtà il mondo ottomano era affascinato dalle antichità classiche: basta leggere l’ispirata e fantasiosa descrizione del Partenone fatta nel Seicento dal grande viaggiatore turco Evliya Çelebi. Forse non esisteva l’idea della tutela dei monumenti, che venivano riusati in continuazione senza troppi timori reverenziali: i cristiani trasformano il Partenone in chiesa della Vergine Maria, gli ottomani in moschea. Ma il saccheggio dei marmi del Partenone non è in realtà colpa dei turchi: è, appunto, soprattutto colpa di un inglese, anzi di uno scozzese, Lord Elgin, che per la sua rapacità fu già allora condannato ed esecrato da molti suoi compatrioti come il poeta Byron».
Cos’è rimasto oggi della vena dionisiaca che, dalle remote origini di Atene ha attraversato la storia, giungendo fino a Nietzsche e a Isadora Duncan?
«Una vena dionisiaca corre attraverso tutta la storia di Atene: Dioniso era un dio antichissimo, e il suo culto ad Atene era importantissimo. Basti pensare che tutto il mondo del teatro, con le rappresentazioni della tragedia e della commedia, era posto sotto la protezione del dio. Anche se il “dionisiaco” diventa poi un grande mito moderno nel segno della fascinazione per l’irrazionale che attraversa molta parte della cultura novecentesca. Tanti scrittori e artisti del Novecento trovano nell’estasi dionisiaca la loro fonte di ispirazione. Come, appunto, la grande ballerina Isadora Duncan, che, vestita da antica greca, cerca di far rivivere le antiche danze di Dioniso tra le rovine del teatro di Atene.
È un sogno, naturalmente. Ma questo, forse, è il destino di Atene: continuare, attraverso i secoli, ad alimentare i sogni».