Crisi climatica
mercoledì 9 Novembre, 2022
di Simone Casciano
C’è un pezzo di Trentino alla Cop27 in corso a Sharm el-Sheikh in Egitto dal 6 al 18 novembre. La conferenza delle parti dell’Organizzazione delle nazioni unite (Onu) dovrà fare passi avanti concreti per contrastare il cambiamento climatico. Il momento non potrebbe essere più urgente, proprio in Trentino questa estate il surriscaldamento globale ha mostrato il suo volto più feroce. Era il 3 luglio scorso quando un seracco della calotta sommitale del ghiacciaio della Marmolada si staccò, generando una valanga di acqua, fango e sassi che spazzò via tutto sul suo cammino, lasciandosi dietro 11 morti, otto feriti e la sensazione di aver raggiunto un punto di non ritorno.
Proprio dalla Marmolada, esattamente una settimana prima, erano partiti per il loro viaggio gli attivisti di The Climate Route, un’associazione ambientalista composta da tanti volontari, provenienti da varie parti d’Italia, ma radicata in Trentino. Dalla «Regina delle Dolomiti» gli otto partecipanti alla spedizione si sono mossi per l’Europa fino a raggiungere la Georgia. Un viaggio di un mese, con mezzi sostenibili, con cui hanno voluto raccontare gli effetti del cambiamento climatico in varie zone d’Europa e come nei territori le persone abbiano messo in pratica strategie di mitigazione e adattamento.
Abbiamo parlato con Alex Nicolini uno dei partecipanti alla spedizione
Alex che cos’è The Climate Route?
«E’ un’associazione nata nel 2020, in tempo di covid, nasce dall’idea di fare sensibilizzazione sui temi della crisi climatica e focalizzare l’attenzione non su una narrazione catastrofista, ma di parlarne in termini positivi attraverso temi come la mitigazione e l’adattamento incontrando persone su cui il climate change sta già avendo un impatto.
L’intenzione era partire dalla Marmolada e arrivare fino allo stretto di Bering attraversando il blocco euroasiatico, incontrando persone attivisti esperti e ricercatori sul cammino, poi la guerra ci ha costretto a modificare il nostro itinerario e alla fine abbiamo deciso di passare dai Balcani, dalla Turchia e poi dalla Bulgaria per arrivare in Georgia».
Siete partiti dalla Marmolanda il 26 di giugno, esattamente 7 giorni prima della tragedia, come stava allora il ghiacciaio? Cosa avete pensato quando avete saputo quello che era successo?
«Quando siamo stati sulla Marmolada si vedeva già che il ghiacciaio era in uno stato drammatico, vedevamo profondi crepacci aperti sulla calotta e si sentiva l’acqua scorrere sotto il ghiaccio. Quando abbiamo saputo cos’era successo il primo pensiero è stato che poteva capitare anche a noi, il secondo che fosse solo questione di tempo e il terzo che purtroppo una settimana dopo non se ne sarebbe più parlato».
Il tema dei ghiacciai è tornato poi altre volte durante il viaggio?
«In Bulgaria abbiamo visto i laghi di Rila, degli specchi d’acqua nati dallo scioglimento dei ghiacciai. È stato un po’ come guardare nel futuro e capire che comunque la vita trova sempre una strada. Il nostro viaggio si è poi concluso in Georgia al Monte Kazbek, una montagna alta 5054 metri. Anche quel ghiacciaio è in sofferenza e nel 2002 si verificò un distacco simile a quello della Marmolada che causò oltre cento morti. Proprio su questi incontri si concentra il nostro intervento ad un side event della Cop27».
Si può fare qualcosa per salvare i ghiacciai?
«Si, Le tendenze possono essere invertite, ma dobbiamo applicare delle policy globali e più tardi lo facciamo più dovranno essere radicali. La paura o l’impossibilità di prendere misure nette rende ancora più drastiche le misure che alla fine bisognerà adottare. Un circolo vizioso che bisognerebbe spezzare».
Durante il viaggio però non vi siete occupati solo di ghiacciai?
«No, siamo stati ospiti di un eco-villaggio in Croazia, a Sofia di un gruppo di attivisti che cura un orto urbano in mezzo a una città di cemento, siamo stati testimoni della forza di adattamento e dell’ospitalità dei pescatori del Mar Nero».
Questi incontri vi hanno dato fiducia e speranza?
«Si, vedere un vicinato rifiorire, anche come comunità, grazie allo scambio dei prodotti a kilometro 0 dell’orto urbano a Sofia, la solidarietà delle comunità contadine alla periferia di Istanbul, così come la passione per i temi climatici dei giovani attivisti incontrati a Belgrado ci danno sicurezza».
Quindi siete ottimisti?
«direi che siamo convinti che una vera transizione ecologica sia possibile e fondamentale non solo per spezzare il ciclo delle emissioni, ma anche per fermare i danni che la ricerca dei giacimenti causa in Sud America e in Africa».
Quali sono i vostri prossimi progetti?
«ora stiamo lavorando al documentario che racconterà il nostro viaggio, siamo tra soggetto e post-produzione e vogliamo uscire nella primavera del 2023. L’obiettivo è dare voce alle persone che abbiamo incontrato, a chi per primo vive l’impatto dei cambiamenti climatici e non viene ascoltato, lo stesso spirito con cui andiamo alla Cop27».