L'intervista

domenica 3 Dicembre, 2023

Il produttore Giacomo Gabrielli, da Moena al Regno Unito. «A sette anni ho costruito una telecamera di cartone. L’Italia non si fida dei giovani»

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Il produttore cinematografico di Moena ora vive nel Regno Unito. Gli inizi con l’aiuto di «Toni Manecia», gli studi a Cinecittà, poi l’incontro con Silvio Muccino. «Mi sono spostato all'estero per fare sul serio»

«La telecamera mi ha sempre affascinato. A sette anni ne ho costruita una di cartone. Poi i miei genitori me ne hanno regalata una giocattolo. Di qui è iniziata la mia carriera». Ne ha fatta di strada Giacomo Gabrielli, classe 1989. Dopo aver frequentando la Rome Film Academy di Cinecittà ha prodotto diverse opere che dimostrano versatilità e interesse per i generi più disparati. Nel 2003 ha fondato Filmart, una casa di produzione cinematografica indipendente. Ora lavora in Gran Bretagna.
Gabrielli, ci racconti i suoi esordi.
«Molti sanno del mio periodo romano, dei rapporti professionali con Silvio Muccino e di quello “serio” legato alla mia azienda, la Filmart, e quindi alla prolifica e lunga collaborazione con la Tv Ladina. Pochi invece conoscono le origini. Inizia tutto 24 anni fa. Siamo alla fine degli anni ‘90. Grazie alla collezione di vhs del papà Vigilio mi sono avvicinato al cinema, soprattutto a quello americano della New Hollywood, con Spielberg in prima linea. Poi ho scoperto il cinema italiano e ho iniziato a nutrirmi principalmente di film horror anni 70/80 che registravo di notte su vecchie cassette riciclate e rovinate. Sognavo di essere come Dario Argento. Un giorno la visione di una troupe della Rai Ladina a scuola a Moena mi folgora. Ai tempi le telecamere non erano grandi, ma enormi. L’oggetto dei miei desideri diventa la telecamera, la macchina da presa. Ne voglio sapere di più… e nel frattempo me ne costruisco una di cartone. Ero alle elementari. La mia passione si faceva sempre più forte, ma la famiglia non se la sentiva ancora di “finanziare” questo interesse. Poi scoprii a Moena un “signore con la telecamera”. Si chiama Antonio Chiocchetti detto “Tone Manecia”, l’elettricista comunale del tempo, anch’egli con una passione sfrenata per fare video. Mi presento nella sua casa-studio di fronte alle vecchie scuole medie. Non dimenticherò mai quei momenti. Le vecchie scale in legno salite con agitazione, come a raggiungere un luogo sacro, l’odore di antico della sua soffitta-studio e la cordialità e gentilezza di quello che sarebbe stato il mio primo maestro. Il resto è storia. Il mio iniziale premio a un festival video in Val Badia nel 2005 con un cortometraggio in ladino prodotto insieme al Tone. Inizia anche la collaborazione con “Ercaboan” e lo stage a Rttr fondamentale per la mia formazione televisiva. Da lì la scelta e la possibilità, grazie al supporto della mia famiglia, di studiare la settima arte a Roma in un’università prestigiosa a Cinecittà e le opportunità che ne sono conseguite. Diversi film festival vinti, collaborazioni e incontri con cineasti internazionali tra cui Silvio Muccino, Martin Scorsese e Giuseppe Tornatore, la produzione dei miei primi lungometraggi, tra cui degli horror con ormai milioni di visualizzazioni online. Quindi il ritorno in Trentino, l’inizio della mia prima esperienza da imprenditore tra gioie e qualche dolore causato da soci sbagliati. Arriva “Whitefall”, la mia prima serie prodotta in lingua inglese girata nei boschi di Fiemme. Poi Londra».
Quali le produzioni che le hanno dato maggiore soddisfazione?
«Produrre horror mi ha sempre divertito. Sono stati i set più dinamici, entusiasmanti e stimolanti. Ne ho prodotti sia a Roma che in Trentino. Quello che più amo è “Doc.33”, un “mokumentary” (un finto documentario) che parla di alcuni studenti italiani che indagano su delle misteriose sparizioni di bambini in un convento sulle Alpi austriache… e che poi faranno una brutta fine. Dopo essere stato snobbato da tutti i festival a cui lo avevo sottoposto, il web si è rivelata la sua destinazione finale. Oggi ha milioni di visualizzazioni e basta leggere i commenti del pubblico e le ottime recensioni online per rendersi conto che piace. Poi c’è “A Journey”, docu-film sull’Olocausto con Arek Hersh, uno degli ultimi sopravvissuti ad Auschwitz ancora viventi. Lunghissima produzione girata tra Italia, Regno Unito, Polonia e Repubblica Ceca, di cui ne esistono diverse versioni, una stampata anche su pellicola 35mm. Un buon film proiettato al cinema e nelle scuole e terminato anch’esso di recente sul canale YouTube di Filmart Pictures. Con Vincent Frattini ho anche girato “B309”, un forte dramma sull’abuso sessuale con delle scene particolarmente esplicite, primo film di produzione completamente inglese. Con Vincent oggi condivido anche la mia vita privata».
Perché la scelta di lavorare in Gran Bretagna?
«Mi sono spostato in Gran Bretagna per fare sul serio. Qui non scherzano. Concorrenza spietata e molti bravissimi film makers. I top al mondo sono qui e io sto lavorando per ritagliarmi uno spazio tra di loro. Il Regno Unito l’ho amato, poi odiato. Ho iniziato a capirlo e alla fine a rispettarlo e ad amarlo di nuovo. Qui la vita è dura, soprattutto se non sei ricco. E io non lo sono. Gli affitti delle case sono folli e il sistema sociale molto rigido. Dal momento che ho lasciato i guadagni regolari in Italia, per cercare più stimoli qui ed evitare di bruciarmi tutti i risparmi, ho dovuto fare i lavori più disparati. Questo anche per regolarizzare la mia posizione. Ora sono un residente e pago le tasse in Gran Bretagna».
Perché molti giovani cercano un futuro all’estero?
«Posso dare la mia visione. L’Italia è un paese estremamente conservatore e questo cozza con il mio carattere. Un ambiente che non si fida dei giovani diventa un luogo che i giovani rigettano, dal quale scappano. Non ho detto “partono”, ho detto “scappano”. L’Italia è un paese straordinario che preferisco assaporare nei momenti di vacanza o quando vengo a trovare la famiglia. Restare nel Bel Paese sarebbe asfissiante. Almeno per me».