L'editoriale

martedì 10 Gennaio, 2023

Il panico morale per le nuove generazioni

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Rivolgersi alle concittadine e ai concittadini invitandoli ad assumere lo sguardo dei giovani presuppone l’esistenza di due sguardi e, quindi, di due gruppi disgiunti: quello della cittadinanza adulta (impegnata a risollevare le sorti della Repubblica e, quindi, meritevole di considerazione politica) e quello dei giovani (meritevoli di una ramanzina)

Come tante e tanti altri, anche quest’anno mi sono ritagliata del tempo per ascoltare con attenzione il discorso di fine anno del presidente della Repubblica. Sedermi e concentrarmi su forma e contenuti di questo discorso non è semplicemente parte di un ripetitivo rituale di chiusura ma, piuttosto, un’occasione per apprendere quelle che, secondo la prospettiva istituzionale, sono le questioni centrali che hanno segnato la vita del nostro paese negli ultimi dodici mesi.
Più di ogni altra cosa, quest’anno mi ha colpito l’ultima parte del messaggio di Mattarella – il suo appello diretto ai giovani. «Quando guidate avete nelle vostre mani la vostra vita e quella degli altri. Non distruggetela per un momento di imprudenza, non cancellate il vostro futuro» ha detto il presidente. Subito dopo, ha iniziato i suoi saluti finali: «Care concittadine, cari concittadini, guardiamo al domani con uno sguardo nuovo. Guardiamo al domani con gli occhi dei giovani. Guardiamo i loro volti, raccogliamo le loro speranze, facciamole nostre facciamo sì che il futuro delle nuove generazioni non sia soltanto quel che resta del presente ma sia il frutto di un esercizio di coscienza da parte nostra sfuggendo la pretesa di scegliere per loro, di condizionarne il percorso».
Non nascondo di essermi sentita un po’ perplessa. In alcuni passaggi precedenti a quello che ho citato, Mattarella ha genericamente menzionato i giovani come protagonisti della lotta per la transizione ecologica e digitale. Guardando oltre i confini nazionali, ha poi ricordato le giovani donne iraniane e afghane che lottano per i loro diritti e l’emancipazione dei loro paesi, come pure i giovani russi che coraggiosamente rifiutano la guerra. Quando però si è trattato di parlare direttamente con i «nostri» giovani è arrivata la ramanzina – pacata, come si confà ai toni del messaggio di fine anno, ma pur sempre una ramanzina. Possiamo forse sorridere davanti all’invito del presidente ad assumere lo sguardo di un soggetto che, imprudentemente, si mette in macchina sbronzo e strafatto. Tuttavia, credo che tra le righe ci sia qualcosa di più politicamente significativo.
Rivolgersi alle concittadine e ai concittadini invitandoli ad assumere lo sguardo dei giovani presuppone l’esistenza di due sguardi e, quindi, di due gruppi disgiunti: quello della cittadinanza adulta (impegnata a risollevare le sorti della Repubblica e, quindi, meritevole di considerazione politica) e quello dei giovani (meritevoli di una ramanzina). Separata (e, quindi, esclusa) dal gruppo della cittadinanza attiva, la categoria dei giovani diventa una mera costruzione retorica e completamente astratta, un significante vuoto per indicare la potenzialità di un capitale umano necessario che esiste ma che in realtà non viene messo a valore perché, come ricorda il presidente, non ci viene facile lasciarlo vivere.
Quel che mi sembra ancora peggio, è che la visione romantica e positiva, ancorché astratta, con cui Mattarella ha chiuso il suo augurio per l’anno nuovo non appartiene in alcun modo né al dibattito pubblico né tantomeno ai provvedimenti politici che coinvolgono (sarebbe forse meglio dire, costringono) le coorti più giovani. Nel concreto della quotidianità mediatica e politica, la ramanzina diventa una vera e propria condanna: i giovani sono gli «ecocretini» o gli «ecoterroristi» che imbrattano per dispetto i muri del Senato con vernice (lavabile) o dissacrano preziosissime opere d’arte gettandoci sopra del purè di patate. I giovani sono pericolosi esponenti di gang criminali che mettono a soqquadro i centri delle città per comprarsi uno smartphone di ultima generazione. I giovani fanno i rave party per drogarsi. I giovani evadono le carceri a Natale senza rendersi bene conto di che cosa stanno facendo e solo perché vogliono stare a casa con la loro famiglia. I giovani si bullizzano a vicenda e istigano al suicidio i loro coetanei. I giovani occupano le scuole e incarnano l’egemonia culturale della sinistra. I giovani usano il bonus cultura per comprare la qualunque.
Ma, alla fine, chi sono davvero questi giovani? Onestamente, non saprei rispondere – semplicemente perché non mi capita spesso di sentire le loro voci risuonare negli spazi della politica, dei media e perfino in quelli dell’Università in modo forte tanto quanto quelle di noi adulti. Quelli che quotidianamente e genericamente chiamiamo «i giovani» sono, in realtà, dei diavoli popolari – incarnazioni di mali che maturano in condizioni strutturali opprimenti e inique, fantocci costruiti dal racconto di adulti incompetenti e incapaci che prendono impegni irrealizzabili per futuri che hanno già distrutto, che non chiedono e non ascoltano, che infliggono la pena o il giudizio senza preoccuparsi del problema, che si impossessano di uno sguardo che credono sia sempre rivolto verso il futuro e, invece, cerca di orientarsi in un presente drammatico ed escludente. I giovani diavoli esistono per uno scopo preciso, come dice bene Stanley Cohen nel suo libro sui panici morali: «Anche se il comportamento dei ragazzi non sembra molto buono, parla abbastanza chiaramente: chiede ciò che noi non possiamo dare». I giovani veri – in carne, ossa ed esperienza – ancora non li abbiamo considerati.