Il ricordo

mercoledì 23 Novembre, 2022

«I nostri 1939 giorni senza Alba Chiara. Ora si parli di più di violenza con gli uomini»

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Massimo Baroni, il ricordo della figlia uccisa nel 2017 e la testimonianza (faticosa) contro la violenza di genere: «Abbiamo traslocato perché rimanere in quella casa era doloroso. Dalla sua stanza sono apparse due tele: è un dono che ci ha fatto»

Non ci pensa un istante. Il tempo dell’assenza segue il ritmo lento di una litania. E Massimo Baroni ne conosce al millimetro fatica e dimensione. «Sono trascorsi 1939 giorni da quando Alba Chiara non c’è più», dice tutto d’un fiato. La sua famiglia da cinque anni è monca, dispari. Il 31 luglio 2017 Alba Chiara Baroni è stata uccisa a Tenno dal fidanzato Mattia Stanga, 24 anni, poi suicidatosi. Aveva 22 anni appena. «E da quel momento non passa giorno che non mi volti per farle spazio sul divano, fisso la sedia vuota a tavola, penso sia lei quando sentiamo bussare alla porta». Lo scorso anno, consapevoli che la casa dov’è cresciuta fosse troppo legata ai ricordi, Massimo, la moglie Loredana e la secondogenita Aurora hanno deciso di traslocare. Un passaggio simbolico, sono rimasti a Tenno, ma che s’è concluso con una sorpresa: «Quasi fosse un regalo di Alba Chiara, dalla sua stanza sono apparsi due quadri di cui non conoscevamo l’esistenza», dice Baroni. Due cavalli e una Madonna incompiuta, una tela che da tempo Baroni chiedeva alla figlia. «Non mi ha mai detto di aver iniziato a dipingere quell’immagine che da tempo le chiedevo, chissà perché». Oltre all’innaturale sopravvivenza a una figlia, l’incubo di ogni genitore, Massimo Baroni e Loredana da cinque anni a questa parte hanno esperito il peso della testimonianza. Oggi sono voce delle vittime di femminicidio. «Non è facile, specie quando ci troviamo a fare i conti col rimorso, quando ci chiediamo se c’erano segnali che non abbiamo colto» ripete Massimo Baroni. Una cosa serata dopo serata gli è chiara: «La violenza è un tema che dovrebbe impegnare molto di più gli uomini».
Massimo Baroni, i riflettori si accendono nell’immediato, dinnanzi al fatto di cronaca, ma poi si spengono con altrettanta facilità. Il dolore di chi resta e convive con il lutto però non si smorza. Come si sopravvive alla perdita di una figlia?
«Il lutto lo viviamo tutti e tre in maniera diversa, ognuno lo esprime a modo suo e ogni modalità ha senso di esistere. Dalla morte di Alba Chiara sono passati cinque anni, precisamente 1939 giorni, li so a memoria. Ognuno di noi conserva gelosamente i propri ricordi, fa i conti con i rimpianti, i rimorsi. No: non è una cosa facile da elaborare. Noi siamo rimasti uniti come famiglia ed è una fortuna. Oggi proseguiamo con le sfide che ci vengono presentate dalla vita e, diciamo, teniamo in piedi la baracca anche se a volte si va in conflitto».
In altre occasioni ha raccontato che, all’inizio, si fa fatica a realizzare.
«Non sono uno psicologo, ma racconto ciò che ho vissuto. I primi due anni si vive in una bolla, è uno choc post-traumatico. Continui la tua esistenza ma il cervello si dissocia dal dolore. Accade però che questo meccanismo finisca e ci si rende conto dell’assenza. A tavola c’è un posto vuoto, sul divano mi trovo solo e mi sistemo per farle spazio, a ogni rumore penso sia lei che entra dalla porta. Una delle ragioni che ci ha spinto a traslocare è stata questa: Aurora condivideva la stanza con Alba Chiara, rimanere lì era difficile».
Quindi avete lasciato casa vostra?
«Sì, lo scorso anno. È un trauma, eravamo lì sin dal nostro matrimonio, era il 1993. Il trasloco non è stato facile, vuoi portare via tutto ciò che era suo. Però è accaduto anche qualcosa che non ci saremmo aspettati e che abbiamo vissuto come l’ultimo regalo di Alba Chiara».
Che cosa è accaduto?
«Nella sua stanza abbiamo trovato due dipinti che non sapevamo avesse iniziato: due cavalli che corrono liberi e una Madonna che le ho sempre chiesto di farmi. Ci stava lavorando, è incompiuta. Chissà perché non me ne ha mai parlato».
Le torna alla mente quel giorno di luglio di cinque anni fa?
«Io ho un grande rimpianto: ero li cinque minuti prima che succedesse e non sono riuscito a capire che c’era qualcosa che non andava. Nel tempo mi è stato detto che non avrei potuto fare nulla, ma convivo con questo pensiero».
Con l’associazione Alba Chiara si impegna nella lotta contro la violenza di genere. A chi contesta persino il termine femminicidio cos’ha risposto?
«Non mi è mai capitato di trovarmi direttamente davanti qualcuno che polemizzasse. Però ricordo bene le parole di chi ha contestato la stele per Alba Chiara, si voleva far togliere la parola femminicidio. Quale la motivazione? Qualcuno disse che, allora, si poteva parlare anche di “trattoricidio” quando s’inceppa un trattore».
Le serate, gli incontri, i momenti di sensibilizzazione aiutano la sua famiglia a rielaborare la perdita?
«In alcuni momenti no, è difficile. Quando si parla dei famosi campanelli d’allarme mi pare di rivivere le dinamiche di Alba Chiara, mi chiedo come abbiamo potuto non capire. Quello che le è accaduto non deve ripetersi mai più. Ecco: se c’è qualcosa che abbiamo capito è che dobbiamo dire chiaramente che il femminicidio è un problema degli uomini. La sfida è abbattere gli stereotipi e la cultura di prevaricazione diffusa sin da bambini. Oggi io conservo il ricordo della mia bambina e, a volte, mi interrogo sulla memoria di tutte quelle ragazze che invece non sono ricordate».

Il dipinto di Alba Chiara incompiuto

I due cavalli trovati nella stanza di Alba Chiara