L'intervista
giovedì 22 Febbraio, 2024
di Marco Ranocchiari
La transizione ecologica deve essere dal basso o non ci sarà. Ne è convinto, davanti al continuo aumento delle emissioni a oltre trent’anni dalla prima Cop sul clima, Emanuele Leonardi, ricercatore del Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’economia dell’Università di Bologna. Il sociologo e attivista, autore con Paola Imperatore de «L’era della giustizia climatica» (Orthotes Editrice), sarà ospite oggi alle 18 del Muse nell’ambito degli incontri dedicati al clima «Muse Agorà».
Emanuele Leonardi, che cos’è la giustizia climatica?
«Questo termine suggerisce di guardare al riscaldamento globale prima di tutto come un problema di disuguaglianze. Coloro che ne sono maggiormente responsabili, infatti, sono anche quelli che meno ne subiscono le conseguenze, e viceversa. Quando il termine venne coniato, negli anni Novanta, si parlava dell’asse nord-sud di disuguaglianze tra Paesi, una visione ancora legata allo Stato-nazione. Nel nostro libro cerchiamo di affiancare a questa chiave di lettura la considerazione che un impatto determinante lo hanno anche le disuguaglianze economiche all’interno dei Paesi, la questione sociale».
In che modo, dando maggiore enfasi alle disuguaglianze, la sfida per affrontare il cambiamento climatico sarebbe diversa?
«Dal punto di vista dei consumi, i numeri indicano che per rimanere nell’ambizioso scenario dell’accordo di Parigi (un grado e mezzo di aumento della temperatura media al 2100), il 50% più povero della popolazione mondiale potrebbe addirittura raddoppiare le proprie emissioni. A dover rivoluzionare il proprio stile di consumo sarebbe solo il 10% più ricco della popolazione, e tra questi in particolare l’1% più ricco in assoluto. Questi numeri derivano da un famoso studio di Oxfam del 2015. Non dimentichiamo che questa incredibile sproporzione fa sì che questa minoranza si porti dietro, oltre ai consumi altamente impattanti, la responsabilità della scelta di mantenere lo sviluppo economico vincolato all’economia fossile. Ma il dato più interessante è che il 40% che resta dovrebbe sì cambiare i propri consumi, ma potrebbe essere agevolato da politiche volte a tale scopo, come per esempio, la gratuità dei mezzi di trasporto».
Nel libro fate notare che nei trentadue anni che ci separano dalla prima Cop per il Clima, a Rio de Janeiro, le emissioni non hanno fatto altro che aumentare.
«La grande scommessa, tradotta nell’enorme complessità della macchina politico-amministrativa delle Cop, è stata quella di riformulare la visione che vedeva contrapposte economia e ambiente, con la promessa di generare allo stesso tempo sempre più profitti attraverso il mercato e riuscire, così facendo, a risolvere il problema creato da quello stesso sistema economico. Trentadue anni dopo le emissioni continuano a crescere più che mai. Credo serva avere la razionalità di ammettere che la scommessa non ha funzionato».
Non le sembra che, criticando tout court le azioni ambientali intraprese, si rischi di affossare definitivamente la possibilità di cambiare la rotta?
«È evidente che uno spazio negoziale internazionale come quello delle Cop è necessario, ma occorre ripensare il rapporto tra la società civile e le forze sociali che vi partecipano. Serve ad esempio maggior coinvolgimento dei sindacati, anche a livello di base, tra cui si sta diffondendo una sensibilità che potremmo tranquillamente definire ecologista».
Alla transizione «dall’alto» delle Cop ne contrapponete una «dal basso», inaugurata nel 2019 dagli oceanici scioperi per il clima, che hanno visto aprirsi una frattura sempre più profonda tra movimenti e governanti, accusati da Greta Thunberg di limitarsi all’ormai celebre «bla bla bla».
«A nostro avviso, anche tra chi si occupa di clima non c’è sufficiente consapevolezza del carattere epocale di quei movimenti, proprio per la scelta di includere le dinamiche più specificamente legate alla questione sociale».
Eppure, dopo una fase di entusiasmo, i movimenti ecologisti appaiono in difficoltà. Anzi, dai negazionisti climatici ai movimenti degli agricoltori, spesso sembra prevalere una certa avversità alle politiche ambientali.
«Invece che fare autocritica, le élite raccontano le politiche ambientali dicendo: “non stiamo facendo abbastanza, ma ci stiamo muovendo nella giusta direzione”. Si pone così il problema ineludibile di chi paga questa transizione, dato che il grande capitale continua a rifiutare di farsene carico. In questo hanno gioco gli interventi reazionari, anche se sarebbe un buon esercizio mappare le resistenze che emergono dal mondo contadino: si scoprirebbe che a volte reazionarie non lo sono affatto. Il primo errore nelle politiche ambientali è spesso ritenere che le persone siano sciocche o naturalmente anti-ecologiche, quando spesso occorrerebbe semplicemente predisporre delle politiche che facciano coincidere gli interessi degli strati popolari con quelli del pianeta. Perché tutti parlano di costose auto elettriche e nessuno di autobus elettrici? Se si continua a dire che non ci sono i soldi, va bene, ma poi non ci si deve sorprendere del malcontento».
Nel libro fornite esempi che ritenete positivi della transizione «dal basso», in particolare quella proposta dei lavoratori di GKN, che per rilanciare la fabbrica hanno proposto una reindustrializzazione in senso ecologico della produzione.
«Con lo slogan “siamo classe dirigente”, il collettivo di fabbrica GKN vuole dimostrare che dal basso le buone idee sono già germogliate. Il problema è che chi investe ha un ritardo culturale enorme, che ormai è troppo generoso chiamare ignoranza e non dolo. Noi siamo convinti che con il fallimento della promessa della Green Economy si riapra una partita, che va giocata politicamente, che vede protagonista la parte bassa del conflitto tra capitale e lavoro, in una prospettiva ecologica basata sulla riduzione delle disuguaglianze. Un gruppo sociale che non ha avuto finora possibilità di esprimere un pensiero ecologico».