l'intervista
venerdì 25 Luglio, 2025
Giovani e ciclismo, Annalisa Benatti: «Alle mie atlete vieto di portare il cellulare in trasferta. Il risultato? Fanno gruppo»
di Angelo Zambotti
La ds del Team Femminile Trentino: «Sono cresciuta tra le biciclette, ma per le donne gareggiare ai miei tempi era difficile»

Educatrice, tanto nella vita di tutti i giorni, leggasi il lavoro al centro disabilità dell’Anffas, quanto nelle ore dedicate alla propria grande passione, il ciclismo, vissuto nelle vesti di ds del Team Femminile Trentino.
Annalisa Benatti, classe 1962 di Cortesano, è reduce da una delle soddisfazioni più grandi della propria carriera sportiva, ovvero la maglia tricolore allieve conquistata sabato 5 luglio da Giorgia Nervo: la classe 2009 di Pieve Tesino, vincendo il campionato italiano su strada di Gorizia, ha riportato in Trentino un titolo che, nella categoria under 16 al femminile, mancava da oltre 20 anni.
Benatti, partiamo proprio dalla fine. Si aspettava di tornare dalla trasferta goriziana con la maglia tricolore?
«Sapevo che Giorgia sarebbe stata tra quelle che si sarebbero giocate il titolo italiano, aveva già dimostrato nel corso della stagione di essere tra le dieci più forti del panorama nazionale. Lei ha un “motore” importante, anche se ogni tanto agisce troppo d’istinto».
Cosa ha fatto la differenza in una gara di 73 chilometri corsi sotto un sole cocente?
«L’avvicinamento alla gara è stato curato nei minimi dettagli, stiamo parlando di corse giovanili ma anche e soprattutto per questo io ci tengo in maniera particolare ai comportamenti da adottare, perché se non si imparano a quest’età poi è difficile acquisire la giusta mentalità. L’alimentazione, l’idratazione, il passare meno tempo possibile al caldo prima della gara ha inciso in maniera notevole. Poi ovviamente è stata la strada a dare il giudizio finale, con Nervo che è stata perfetta nello sfruttare il lavoro di squadra, nel tenersi sempre nella posizione giusta e infine nel dominare la volata contro ragazze di indubbio valore».
Dobbiamo appuntarci il suo nome tra le promesse del ciclismo italiano?
«Io dico solamente che Giorgia ha enormi margini di crescita, perché nel Team Femminile Trentino non è mai stata “spremuta”, la vera selezione comincia dalle juniores. Di solito le nostre allieve arrivano a fine stagione con circa 7000 chilometri nelle gambe, mentre le esordienti (ragazze di 13-14 anni) ne fanno la metà, cifre piuttosto basse rispetto ad altre realtà».
Quale quindi la “settimana tipo” delle sue ragazze?
«Solitamente due volte a settimana, di martedì e giovedì pomeriggio, ci alleniamo insieme, con sedute non troppo lunghe in termini di tempo, ma molto intense e dedicate a intensità e agilità. Mercoledì è poi il giorno del lungo, sabato si pensa allo scarico, domenica arriva quindi l’appuntamento con la gara».
Facciamo un passo indietro: com’è nata la sua passione per il ciclismo?
«Diciamo che è una questione di famiglia. Mio padre Romolo, classe 1933 di origini emiliane, ha sempre avuto un’enorme passione per la bicicletta, aveva una Cinelli che, da quel che mi ha sempre detto, costava un occhio della testa. Lui ha corso fino ai dilettanti con Aldo Moser, inoltre ha fondato il Club Ciclistico Gardolo con altri amici. Poi mio fratello Gaetano, di tre anni più giovane di me, ha sempre corso, e io lo seguivo ovunque, anzi lo spronavo nel continuare: pure lui ha raggiunto la categoria dilettanti con Maurizio Fondriest, poi ha mollato».
E perché non si è misurata anche lei con le gare?
«Perché a quei tempi era difficilissimo per una ragazza fare ciclismo! Anche per questo provo a trasmettere quanto più possibile l’amore per questo sport alle nostre giovani, che hanno un’opportunità che quelle della mia generazione difficilmente avevano. Io ho allenato anche i ragazzi, poi sono entrata nel Team Femminile Trentino grazie a Geltrude Berlanda e Bepi Zoccante, una quindicina di anni fa quando sono stata a Salsomaggiore per il corso da ds ero l’unica donna…».
E ora cosa prova a trasmettere alle giovani?
«Innanzitutto che il ciclismo non è un gioco, ma uno sport tremendamente duro. E proprio per questo è una scuola di vita, che è in salita. Nel ciclismo ci sono regole ferree da rispettare, tra tanti sacrifici, caldo torrido o pioggia battente, poi bisogna fare i conti con le ore di luce, con l’alimentazione. E qui vincere non è la normalità, anzi. I giovani che scelgono questo sport sanno a cosa vanno incontro e ne escono fortificati, troppo spesso però sono i genitori che credono di fare un piacere ai figli spianando loro la strada. Io stessa mi alleno e tengo una vita sana, e seguo le ragazze in bici, non in macchina, perché solo così posso vederle da vicino, aiutarle».
Uno sport di gambe, questo è certo, ma non solo.
«Esattamente, soprattutto nell’età giovanile bisogna lavorare sulla testa più che sul fisico per permettere a questi ragazzi di diventare atleti: allenare il fisico è in fin dei conti semplice, lavorare sulla testa è ben più impegnativo, e quando si sale in bici bisogna essere concentrati, non è sufficiente pedalare e basta».
Trova differenze tra i suoi primi anni da allenatrice e questi ultimi tempi?
«Io penso che sia sempre più difficile fare il mio lavoro. Noto un disagio crescente, e non penso di sbagliarmi dicendo che lo smartphone ha contribuito in maniera importante: non ci si parla più, ci si rifugia troppo spesso in quello schermo, mi è capitato di parlarne pure con alcuni ds dei professionisti e mi hanno confermato questa mia impressione. Quando vado in trasferta, quindi, lo elimino: semplicemente da quando si sale sul nostro furgone il cellulare non deve esistere, le ragazze lo lasciano a casa, se le famiglie hanno bisogno di parlare con le ragazze possono passare da me. E sapete qual è l’effetto di questa decisione che pare fuori dal tempo? Che le ragazze non me lo chiedono nemmeno, perché fanno gruppo, giocano a carte, si parlano, si confrontano, crescono. Non dobbiamo dimenticare che i giovani sono come le spugne, imparano da noi adulti e quindi anche da noi allenatori, che abbiamo un ruolo che va oltre lo sport, dobbiamo essere delle guide».
Cosa pensa della situazione attuale del ciclismo italiano?
«Non uso giri di parole, non è nel mio stile: dico che il ciclismo italiano va completamente ribaltato. Non possono esserci i genitori che allenano, è la negazione stessa dello sport giovanile, perché da genitori non si può essere lucidi e imparziali: se nel rapporto di crescita sportiva, che poi è anche di crescita umana, subentra il legame affettivo è peggio per tutti. Questo è solamente un esempio, poi ci sono tante altre cose da cambiare, ecco perché la Federciclismo dovrebbe mettere dei paletti, qualcuno ne approfitta del fatto che il ciclismo non si svolga in impianti chiusi ma in luoghi aperti a tutti per fare ciò che vuole».
Poi c’è la questione sicurezza.
«Questa è un’emergenza, lo sappiamo benissimo e lo abbiamo detto fin troppe volte. Serve una struttura protetta per i più piccoli, poi per i giovani tra i 13 e i 16 anni penso che tra Lavis e Salorno, tra le ciclabili e strade come la salita della Lazzera, ci sia tutto ciò che serve per allenarsi bene. Certo, deve cambiare anche la cultura, deve esserci più rispetto nei confronti degli utenti deboli della strada, che siano ciclisti agonisti, gente che pedala per andare a lavorare o per divertimento, pedoni. Sarà un percorso lungo, ma bisogna intraprenderlo subito, insieme».
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