Crisi climatica

martedì 8 Novembre, 2022

Ghiacciai del trentino, è allarme, gli esperti: «Mai così male, è stato un attacco 7 giorni su 7, 24 ore su 24»

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Il report della commissione glaciologica della Sat è impietoso, e ancora di più dei dati e delle parole a essere eloquenti sono le foto che raccontano la lunga agonia dei ghiacciai del Trentino

Anche se, da calendario, l’autunno è iniziato da un pezzo, la Commissione glaciologica della Sat ha terminato a ottobre inoltrato i rilevamenti della caldissima estate 2022, con le vette ancora quasi completamente libere dalla neve. Dopo una stagione di fusione lunghissima ed eccezionalmente calda, per i circa cento ghiacciai trentini quest’anno il bilancio appare particolarmente negativo. «Peggio anche del 2003», spiega Cristian Ferrari, presidente della Commissione, con riferimento a quello che finora era considerato l’annus horribilis della climatologia degli ultimi decenni. A combinare il disastro hanno concorso due fattori: un inverno poverissimo di neve e un’estate eccezionalmente calda, con le temperature in alta quota stabilmente sopra lo zero, anche di notte. «Anche quando non c’era il sole i ghiacciai non hanno avuto tempo di fermarsi e raffreddarsi, perché le rocce che si scaldano durante il giorno continuano a fornire calore. Un attacco ventiquattr’ore su ventiquattro».

La misura più immediata effettuata dalla Commissione è l’arretramento della fronte glaciale, che si ottiene misurando la posizione dell’estremità più a valle dei ghiacciai con una corda metrica o un laser da un punto predefinito. «Abbiamo osservato perdite dalle quattro alle cinque volte più gravi delle medie degli anni scorsi. Se un ghiacciaio arretrava di 15 o 20 metri l’anno, quest’anno si può arrivare a 80. Superfici paragonabili a interi campi di calcio, per ogni ghiacciaio». A La Mare e al Lares (il ghiacciaio che alimenta le celebri cascate della Val Genova) la lingua glaciale si è separata dal corpo principale, diventando quello che in gergo viene chiamato ghiaccio morto. La fronte è così arretrata di colpo di varie centinaia di metri.
Il glaciologo mostra due fotografie della fronte del ghiacciaio del Mandrone-Adamello, che con i suoi circa 1500 ettari è il più grande d’Italia, scattate nel 2012 e nel 2022. Il confronto è impressionante: «In questo punto di misura il ghiacciaio è arretrato di 333 metri in 11 anni». E di questi, quanti sono attribuibili all’ultimo anno? «Non possiamo dirlo con esattezza perché quel punto negli ultimi anni è stato utilizzato solo come stazione fotografica, anche se quest’anno abbiamo ripreso la misura anche da lì. Quello che si può dire è che da un altro punto di misura il ghiacciaio ha perso poco meno di 140 metri rispetto all’autunno del 2021».

Eppure, nonostante la siccità, quest’estate alcuni fiumi del Trentino occidentale sembravano pieni d’acqua. «I ghiacciai dell’Adamello e dell’Ortles-Cevedale hanno scaricato grandissime quantità di acqua nel Noce e nella Sarca – spiega Ferrari –. Ma se nell’immediato l’acqua disponibile sembra aumentare, la quantità di ghiaccio si riduce. A un certo punto, di fronte a una grande fusione, le due curve si incontreranno e poi la portata complessiva diminuirà drasticamente».
Nelle zone più calde, intanto, l’estate ha distrutto gran parte della neve che si era accumulata negli anni precedenti (il cosiddetto firn, fondamentale perché si formi nuovo ghiaccio), compresa quella, abbondantissima, dell’inverno 2020-2021.
La neve storica che riempiva molti crepacci è quasi tutta scomparsa, mentre molti altri ne sono nati e quasi tutti si sono allargati. «Andare sui ghiacciai richiede sempre prudenza, ma quest’anno ne occorrerà ancora di più». Per non parlare dei crolli, un argomento che dopo la Marmolada è diventato di drammatica attualità. «I ghiacciai si sono modificati così tanto che ci sono stati parecchi crolli minori. Ed è probabile che ce ne saranno ancora, è un fenomeno abbastanza naturale».
Da quando nel 1990 la Commissione glaciologica della Sat ha iniziato a eseguire rilievi annuali su parecchie decine di ghiacciai rappresentativi del Trentino (ora, di quelli, ne sono rimasti una quindicina), molte cose sono cambiate. «I rilevamenti terminavano entro settembre con la chiusura dei rifugi, perché in quel periodo arrivava la prima neve. Oggi è diventato normale che la stagione di fusione duri fino a ottobre inoltrato».

In realtà la misura dei ghiacciai trentini ha una storia ormai secolare, con studi da parte della Sat per conto del Comitato glaciologico italiano e da università come quella di Padova. Dai molti dati disponibili, riassunti in una pubblicazione di Meteotrentino, emerge che dalla fine della cosiddetta Piccola età glaciale, intorno al 1850, la loro area si è ridotta di circa due terzi. Oggi ne resistono un centinaio, con una superficie complessiva di una trentina di chilometri quadrati, concentrati soprattutto sull’Adamello-Presanella (che da solo costituisce oltre la metà della superficie totale) e sull’Ortles-Cevedale. La Marmolada e gli altri gruppi dolomitici (soprattutto il Brenta) rappresentano insieme appena il 10 per cento. Dopo una fase di espansione negli anni Settanta, il ritiro ha accelerato progressivamente. Ma anche questo ritmo accelerato impallidisce di fronte a quello dell’ultima estate. Con la speranza che sia un’eccezione e non la nuova regola.