la tragedia
sabato 19 Agosto, 2023
di Tommaso di Giannantonio e Simone Casciano
Se n’è andato «L’uomo del Torre». Ermanno Salvaterra, uno dei più grandi alpinisti del nostro tempo, ha perso la vita sulle sue Dolomiti di Brenta all’età di 68 anni. Guida alpina dal 1979, ieri pomeriggio era in cordata con un suo cliente sul Campanile Alto. Una via semplice per un alpinista del suo calibro, ma in montagna basta poco. A tradirlo, secondo la ricostruzione dei carabinieri di Madonna di Campiglio, sarebbe stato un friend, un dispositivo di sicurezza. L’appiglio si sarebbe staccato e l’alpinista, di 68 anni, è precipitato per una ventina di metri sbattendo la testa contro la parete. Sono stati inutili i tentativi di soccorso.
La sua vita in Val Rendena
Alpinista stimatissimo, Ermanno Salvaterra è stato uno dei più grandi conoscitori della Patagonia, la regione divisa tra l’Argentina e il Cile. La sua seconda casa. Nato a Pinzolo il 21 gennaio 1955, non ha mai lasciato la Val Rendena, rimasta sempre la base delle sue avventure in alta quota. Abitava con la sua compagna Gabriella, originaria di Piacenza, in una casa nel bosco, fuori dal centro abitato di Giustino (ma nel territorio comunale di Massimeno). Amava la montagna, la sua ragione di vita, ma aveva anche una grande passione per gli animali. Chi lo conosceva racconta che era capace di commuoversi per i suoi gattini. Anni fa ingaggiò una specie di battaglia con la Provincia affinché gli fosse lasciata la possibilità di prendersi cura di un camoscio con una zampa amputata. Ci riuscì e se lo portò a casa, il suo «Mirtillo». Nel tempo libero faceva delle lunghe passeggiate nel bosco, fino al Rifugio XII Apostoli, il rifugio di famiglia, che aveva gestito anche lui fino al 2007. Nel tragitto, se incrociava qualcuno a fare la legna, non si sottraeva mai a dare una mano.
L’ultima scalata
Guida alpina in pensione, continuava ad accompagnare altri alpinisti nel suo mondo, sulle Dolomiti di Brenta. Ieri era con un suo cliente, in realtà un amico, residente nel bresciano, più giovane di lui di una quindicina di anni. I due sono partiti in mattinata dal parcheggio Val Brenta. Sono arrivati al rifugio Ai Brentei e poi da lì si sono diretti all’attacco della cresta ovest del Campanile Alto. Stavano percorrendo in cordata la via Hartmann-Krauss, un percorso con un dislivello di 600 metri e una difficoltà di quarto grado. Una via che richiede buone conoscenze, ma pienamente alla portata di un esperto come Salvaterra. La quota di arrivo era a 2.937 metri.
La tragica caduta
Il tragico incidente è avvenuto quando i due si trovavano al terzultimo tiro di corda. Erano praticamente arrivati in vetta. Salvaterra era il primo della cordata. A tradirlo, appunto, il friend, un dispositivo che si infila nelle fessure della parete rocciosa come punto di appoggio per la scalata. Un appiglio dotato di una coppia di moschettoni (il rinvio) nella quale viene fatta passare la corda. Secondo una prima ricostruzione dei carabinieri di Madonna di Campiglio, che hanno sentito il compagno di cordata, il friend ha ceduto accidentalmente provocando il volo nel vuoto di Salvaterra, ad una quota di 2.750 metri. La caduta ha avuto la traiettoria di un pendolo, visto che era legato al suo cliente con la corda. L’alpinista trentino ha sbattuto la parte posteriore della testa sulla parete rocciosa. Un colpo che non gli ha lasciato scampo. A quel punto il compagno di cordata, che lo ha visto precipitare davanti ai suoi occhi, è riuscito a chiamare i soccorsi e poi, manovrando la corda, a spostarlo su una cengia, una sporgenza.
I soccorsi
L’amico ha lanciato l’allarme alle 14.12. La centrale unica di Trentino Emergenza ha chiesto l’intervento dell’elicottero, che è volato fino al rifugio Tosa Pedrotti per recuperare a bordo un secondo tecnico di elisoccorso del Soccorso alpino. Una volta in quota e individuata la cordata, l’elicottero ha fatto scendere in parete tramite il verricello i due tecnici. Per il sessantottenne non c’era però nulla da fare. Dopo il nullaosta delle autorità la salma è stata quindi recuperata e portata nella camera di mortuaria di Madonna di Campiglio. Il compagno di cordata è rimasto illeso.
L’infanzia in rifugio
Ermanno Salvaterra ha vissuto sempre in montagna. Era il secondo di quattro figli: la sorella più grande Laura, poi Flavia, l’unico fratello Marco e Luisa. La sua vita è fatta di continue scalate. La famiglia ha gestito il rifugio XII Apostoli nella conca di Pratofiorito sulle Dolomiti di Brenta. Dall’età di quattro anni trascorre tutte le estati al rifugio. A soli 11 anni fa la sua prima scalata sulle Torri d’Agola, che si stagliano ad est del rifugio. Alcuni alpinisti passano per il rifugio e portano il piccolo alpinista con loro. Lui è già proteso verso le vette.
La via in onore della nonna
A vent’anni diventa maestro di sci. Quattro anni dopo, nel 1979, guida alpina. Sin da giovane comincia ad aprire diverse vie sulle Dolomiti di Brenta: tra le tante, Delle Aspiranti guide, sul Pilastro Bruno; via Elefante Viola, sul Pilastro Bruno; via Duomo dei Falchetti, sul Campanile Basso. Quella che ricordava con più affetto era la Super Maria al Crozzon, dedicata alla nonna.
La prima spedizione in Patagonia
Nel 1982 decide di fare la sua prima spedizione in Patagonia con Elio Orlandi. Scalano insieme la via del compressore aperta da Cesare Maestri sullo spigolo sud-est del Cerro Torre. Ma a cinquanta metri dalla vetta sono costretti a fare marcia indietro. «L’ultima mattina, poco prima di rimetterci in moto, non avevamo più nulla da mangiare – ha raccontato lo stesso Salvaterra nel suo libro Patagonia, il grande sogno, pubblicato nel 2021 (Mondadori) — Solo ad Elio, era rimasto un pezzetto di cioccolato, io la mia razione l’avevo fatta fuori il giorno prima. (…) tieni, dividiamola – e così facendo spezzò due quadretti di cioccolata, e me li porse. – No – risposi – sono tuoi, mangiali tu, io la mia l’ho finita. (…) quel gesto non fu dividere qualcosa, ma raddoppiarlo. Imparai che con-dividere vuol dire avere di più (…)».
«La vera vetta è il viaggio»
Tornerà più volte nella regione sudamericana per scalare diverse vette, fra cui il Fitz Roy, la Punta Poincenot di quest’ultimo e l’Aguillamet, ma sarà il Cerro Torre, da lui giudicata la montagna più bella del mondo, la meta principale delle spedizioni. Sul Cerro Torre fa diverse scalate, apre cinque nuove vie e, nel 1985, compie la prima salita invernale assieme a Maurizio Giarolli. Nel 1989, dopo Maurizio Giarolli e Elio Orlandi, prova con gli stessi alpinisti e Andrea Sarchi il concatenamento delle quattro sorelle patagoniche: il Cerro Standhart, Punta Herron, Torre Egger e Cerro Torre. Farà più di un tentativo, ma ha dovuto sempre rinunciare a causa del meteo sfavorevole. «Ho rinunciato spesso alla vetta, anche quando mancavano pochi metri — ha scritto nel suo libro — Perché la vera vetta è il viaggio, ogni sforzo fatto per arrivare, ogni gesto che ti ha portato fin lì».
L’impresa nel 2005
Nel 2005, assieme a Rolando Garibotti e Alessandro Beltrami, arriva in cima il 13 novembre scalando la parete nord del Cerro Torre. In tale occasione compie così la sua impresa più significativa per la storia dell’alpinismo in quanto apre la nuova El arca del los Vientos che ripercorre la via che Cesare Maestri affermò di aver salito nel 1959 assieme a Toni Egger. Durante la scalata Salvaterra e i compagni non trovano le tracce del passaggio di Maestri e riscontrano condizioni della montagna differenti da quelle descritte da Maestri. Salvaterra che difendeva le dichiarazioni del «Ragno delle Dolomiti» finì per alimentare le polemiche attorno a un’impresa ancora oggi ammantata di mistero.
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