L'intervista

domenica 8 Gennaio, 2023

Delitto Pasolini, Boato: «Le dietrologie non mi hanno mai convinto. Ci sono tre sentenze»

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L'ex parlamentare, leader del Sessantotto trentino, ricorda Pasolini: «Una volta rischiò un’aggressione a Ca’ Foscari, gli feci scudo con il mio corpo e lui me ne fu grato»

Marco Boato, ex parlamentare (Verdi e Radicali), tra i fondatori di Lotta continuaNel settembre 1968 Pier Paolo Pasolini rischiò una aggressione fisica nel corso del convegno nazionale del Movimento studentesco a Ca’ Foscari a Venezia. «Fui io stesso a salvarlo, proteggendolo col mio corpo e accompagnandolo fuori dalla grande aula, dove era entrato in occasione della Mostra del Cinema. E me ne fu grato». Marco Boato ricorda così il poeta il cui centenario della nascita è stato celebrato attraverso una miriade di libri, riedizioni delle sue opere, spettacoli, mostre e convegni. E proprio pochi giorni fa del suo brutale assassinio, avvenuto la notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia, si è occupata anche la Commissione parlamentare Antimafia, sostenendo che potrebbe essere legato al furto delle pellicole originali di alcune scene del suo film «Salò e le 120 giornate di Sodoma», che era ancora in produzione: lo scrittore-regista sarebbe andato all’Idroscalo proprio per riuscire a recuperarle.

Marco Boato, ex parlamentare (Verdi e Radicali), tra i fondatori di Lotta continua

Pasolini fu anche direttore del giornale «Lotta continua». Boato, ricorda come apprese la notizia del delitto e la sua reazione?
«Quando il 2 novembre 1975 si apprese la tragica notizia del suo omicidio, avvenuto la notte prima, noi eravamo riuniti a Roma nel Comitato nazionale di Lotta continua e ne rimanemmo sconvolti, proprio perché lo conoscevamo bene ed avevamo anche un debito di gratitudine. Lotta continua aveva avuto rapporti molto stretti di collaborazione con Pasolini, nonostante nel 1968 fosse stato duramente criticato per la sua famosa “poesia”, che lui stesso poi definì «brutta», sugli scontri di Valle Giulia del primo marzo a Roma, nella quale aveva parteggiato per i poliziotti e non per gli studenti».
Quella che «L’Espresso» pubblicò nel giugno ’68 titolandola «Cari studenti vi odio».
«Io stesso ho riprodotto integralmente, nel mio libro “Il lungo ’68 in Italia e nel mondo”, quel lunghissimo testo, di cui spesso si ricordano solo un paio di versi usati strumentalmente per farlo apparire come un “reazionario”. Ma Pasolini lo aveva invece destinato alla rivista intellettuale “Nuovi argomenti” con il ben diverso titolo “Il Pci ai giovani”. Nel 1971 Pasolini fu poi uno degli intellettuali-giornalisti che concessero la loro firma, obbligatoria per legge, per la pubblicazione di “Lotta continua”, il che gli costò anche qualche denuncia. E nello stesso anno diede il proprio nome per la diffusione di un nostro docufilm sulla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 a Milano».
Come pensa che sia andata quella notte all’Idroscalo?
«Ho letto innumerevoli versioni, spesso “dietrologiche”, di quel tragico omicidio. Nessuna mi ha mai convinto, compresa l’ipotesi più recente, avanzata senza prove dalla Commissione antimafia del Parlamento. È paradossale che il suo assassino, Pino Pelosi, avesse totalmente cambiato versione addirittura a distanza di 30 anni dai fatti. Penso sia meglio limitarsi alle tre sentenze giudiziarie, anche se la prima – presidente Carlo Alfredo Moro, fratello di Aldo – aveva ipotizzato la presenza di altri correi, non identificati, ipotesi non confermata dalle sentenze successive».
La storia italiana degli anni Settanta, ma non solo, è disseminata di delitti eccellenti, molti dei quali mai chiariti. La giustizia ha fallito? La storia può riparare?
«La storia giudiziaria italiana – ma non solo: basti pensare all’omicidio negli Usa del presidente Kennedy nel 1963 – è costellata di vicende rimaste oscure, se non addirittura di veri e propri depistaggi. Ricordo la strage di Peteano del 31 maggio 1972. I vertici dei carabinieri di Udine depistarono le indagini, per non indagare sui responsabili di estrema destra della morte di tre carabinieri. La verità si è conosciuta molti anni dopo solo per la confessione del fascista Vincenzo Vinciguerra, che si trova tuttora in carcere. E all’inizio i carabinieri avevano addirittura ipotizzato la responsabilità di Lotta continua di Trento, di cui allora ero io stesso responsabile. Non c’è dubbio che rigorose ricostruzioni storiografiche possano supplire alle carenze giudiziarie. Storicamente è certo che la strage di Piazza Fontana a Milano, e non solo, è stata opera di Ordine Nuovo del Veneto. Ma, a causa del principio del “ne bis in idem”, le sentenze giudiziarie non hanno potuto affermarlo, pur avendone acquisito le prove».
Da anni si parla di terrorismo eterodiretto, sia a destra sia a sinistra, da «grandi vecchi» o poteri occulti. È d’accordo?
«Nella seconda metà del Novecento, l’Italia ha conosciuto tre tipi di terrorismo: quello nazi-fascista, che godette anche di complicità istituzionali all’interno degli apparati dello Stato di allora; quello di estrema sinistra: Brigate rosse, Prima Linea e altre formazioni minori; e quello di matrice internazionale, soprattutto da parte di gruppi eversivi di matrice palestinese. Per quanto riguarda il terrorismo di estrema destra, ci furono sicuramente aspetti di “eterodirezione”, accertati anche sul piano giudiziario, contro i quali lo stesso Vinciguerra ha voluto motivare la propria confessione. Per quanto riguarda il terrorismo di estrema sinistra, non è mai emerso nulla che potesse realmente verificare l’ipotesi fantasiosa del “grande vecchio”. Per quanto riguarda il terrorismo di matrice internazionale, si è discusso a lungo e si discute ancora del cosiddetto “lodo Moro”, a cui lo stesso Aldo Moro aveva alluso nel corso dei suoi interrogatori da parte delle Brigate rosse, che però non capirono nulla di quelle rivelazioni».
Quando era parlamentare, ha spesso visitato in carcere detenuti politici. Quale incontro ricorda con maggiore emozione?
«Ho fatte molte di queste visite, sia con detenuti di sinistra che di destra. I ricordi sono moltissimi, di varia natura. Fui all’epoca l’unico deputato a visitare – su richiesta di Salvatore Buzzi, figura riemersa negli ultimi anni nelle inchieste su “mafia capitale” – anche i detenuti di matrice fascista. Quando andai a Rebibbia a incontrarli, molti mi ringraziarono, ma uno di loro mi disse: «Se fossimo fuori, io la ucciderei». Replicai con calma: «Allora, vede che è meglio che per un po’ lei resti ancora qui dentro». Due di loro li ritrovai dopo l’uscita dal carcere, e mi ringraziarono, perché durante la detenzione nessun politico andava a visitarli. Ovviamente, ho molti ricordi degli incontri con i detenuti di sinistra: erano anni terribili e le carceri ne erano piene. Nel 1988 incontrai, su loro richiesta, anche Renato Curcio e Mario Moretti. Mi chiesero di impegnarmi per una “soluzione politica”. Mi dichiarai disponibile, a patto che non ci fossero più attentati. Mi rassicurarono. Purtroppo il mese dopo venne assassinato dalle Brigate rosse il mio collega senatore Roberto Ruffilli. Curcio e Moretti non contavano più nulla rispetto alle nuove Br, e la cosa finì lì. E Ruffilli non fu l’ultimo ad essere ucciso».
Perché solo in Italia il terrorismo politico ha vissuto una stagione così lunga?
«Non è un caso che il terrorismo politico ha avuto un ruolo drammatico nei tre principali Paesi usciti sconfitti dalla seconda guerra mondiale: Italia, Germania occidentale e Giappone. Ma in Italia ha avuto durata assai maggiore, anche perché il primo a manifestarsi è stato il terrorismo di estrema destra con complicità istituzionali, seguito poi dal terrorismo di estrema sinistra e dal terrorismo internazionale. Nessun altro Paese ha avuto una stagione di stragi, sequestri e attentati così terribile».
Allora era un’altra Italia. E oggi i giovani conoscono poco quegli anni. Ritiene che possano riproporsi?
«Per fortuna, non credo ce ne siano le condizioni. Ma la maggior parte dei giovani di oggi non ne ha memoria storica. Basti ricordare che da un sondaggio è emerso che molti giovani pensano che la strage di Piazza Fontana del 1969 sia stata opera delle Brigate rosse, che sarebbero nate solo due anni dopo».
In questi giorni alte cariche dello Stato rilanciano la nostalgia per il Movimento sociale italiano. Nostalgia opportuna?
«Non è stato illegittimo farlo da parte del presidente del Senato La Russa e della figlia di Pino Rauti, Isabella, che è sottosegretario alla Difesa. Ma è stato un grave errore politico, del tutto inopportuno, per non dire di più. Del resto abbiamo avuto la replica giovedì da parte di Giorgia Meloni, durante la sua conferenza stampa. Ancora più inopportuno. Ma questa è l’Italia di oggi, che sembra aver dimenticato o rimosso tutto. La destra al governo comporta anche questo».