L'intervista

martedì 23 Maggio, 2023

Claudia Parzani (Borsa Italiana) e il valore del capitale umano: «La diversità spinge la crescita. Parità di genere? Manca l’urgenza»

di

La vice-presidente de Il Sole 24 Ore, ospite del Festival dell'Economia, parla delle imprese del futuro. «Un’azienda non può immaginare il proprio futuro omettendo riflessioni sulla sostenibilità o sull'innovazione»

Gli ottimisti amano dire che il futuro non esiste, perché non sta scritto da nessuna parte. Ciascuno lo appronta con le proprie scelte. Ci sono però tre direttrici da cui in qualche modo non si potrà prescindere nei prossimi anni. Vale tanto per le persone quanto per le aziende. Inclusione, sostenibilità e innovazione sono tre lenti attraverso cui guardare il mondo. A dirlo è Claudia Parzani, partner Linklaters, presidente di Borsa Italiana e vice-presidente de Il Sole 24 Ore che alle tematiche di corporate governance ha dedicato l’intera carriera.
Il tema del festival è il futuro. Quali sono secondo lei le tre parole su cui costruire il futuro?
«Il futuro deve poggiare innanzitutto sulle persone. Questa è prima parola che mi viene in mente. Abbiamo capito l’importanza del capitale umano, ma se non siamo in grado di coltivarlo è difficile immaginare un futuro. Ci sono due parole da cui non potremo prescindere: sostenibilità e innovazione».
Lei ha guidato e guida alcune importanti organizzazioni a livello nazionale. Il lavoro sta cambiando – basti pensare al fenomeno delle grandi dimissioni – e con esso le aziende. Anche l’intelligenza artificiale potrà influire sulle politiche d’impresa. Quali risposte dovranno dare le aziende per attrarre capitale umano e non compromettere la propria competitività?
«Un’azienda non può immaginare il proprio futuro omettendo riflessioni sulla sostenibilità o sull’innovazione. Chi decide di discostarsi dagli investimenti in sostenibilità, e può farlo, deve chiedersi però che tipo di investitori e clienti potrà attrarre, quale il bacino di talenti a cui ambire. Oggi la complessità fa parte della realtà. Le aziende devono capire come cambiare il proprio paradigma lavorando sempre di più sull’innovazione sociale. Non solo sull’innovazione di prodotto ma anche di processo. Un nuovo modo di guardare all’impresa e di fare impresa».
Rispetto alle operazioni più interessanti che ha visto da Presidente di Borsa Italiana, su quali asset orienteranno in futuro le imprese e gli investitori?
«Gli investitori oggi cercano trasparenza, coerenza tra quanto si dichiara e quanto si fa in concreto. Un valore che distinguerà in futuro l’impresa sociale sarà la capacità di stare e di insistere sul proprio territorio con un senso di responsabilità. Senza trascurare di essere parte di qualcosa di più grande che va rispettato».
Valorizzazione della diversità, dei giovani, ma anche delle fragilità: l’inclusione è diventata anche un motore di crescita?
«È sempre più evidente che c’è bisogno di tutti al tavolo. Non è solo un tema di genere o di geografia. È in corso un dialogo serio sull’importanza di scambi tra sfere diverse della società. La complessità cresce, viviamo in contesti caratterizzati da crisi che corrono in parallelo. Al risolversi di una ne spuntano di nuove. Questi scenari multi-crisi ci portano ad avere bisogno attorno al tavolo di menti diverse e di tante cassette degli attrezzi. Per questo l’inclusione è fondamentale, è un tema di business. Quanto al tema della fragilità, che mi sta molto a cuore, io credo che tutti abbiamo davanti un percorso che non è scritto. Ammettere le proprie fragilità aiuta a fare scelte più coerenti e a concedersi di sbagliare. Oggi è richiesto molto più coraggio. Il coraggio di fare investimenti, di discostarsi da vie del passato. A maggior ragione bisogna concedersi la fase della sperimentazione e dell’errore. Anche il leader per essere più efficace deve mettersi a nudo, mostrare la sua complessità, la sua autenticità e la sua umanità».
Qual è stata la scelta che ha dato un cambio di passo al suo futuro?
«Non ho mai scelto il business a discapito di altre cose che reputo importanti. Forse la scelta più coraggiosa, negli anni, è stata continuare a dedicarmi a temi di impatto sociale. Ho speso molte energie sull’inclusione di genere, al tema della disabilità, e oggi sono impegnata con le Nazioni Unite in progetti di educazione dei giovani rifugiati. È stato faticoso far comprendere quanto fosse importante costruire un ponte tra profit e no profit, soprattutto quando ero più giovane. È stata senz’altro la scelta più coraggiosa».
Nel libro che ha scritto insieme a Sandro Catani (Si vince solo insieme, Garzanti), si parla di diversità, lavoro e futuro dei giovani come leva di cambiamento. Di come far dialogare generazioni che in apparenza hanno poco in comune. A volte l’impressione è che questo rapporto sia trascurato. Un caso emblematico è stata la fiacca traduzione in politiche delle marce per il clima. Si sta trascurando l’importanza di un dialogo?
«Per le aziende un aspetto sempre più cruciale sarà l’ascolto. Troppo spesso sento giudizi generici sulle nuove generazioni. Il rischio è che si crei una frattura, in parte già visibile. Invece è importante capire che nel futuro non ci arriveremo con la stessa macchina che ci ha portati dove siamo oggi. Per questo dobbiamo ascoltare, comprendere e valorizzare. Chiederci che cosa portano al tavolo i più giovani. La risposta è che portano competenze (Esg, digitale, nuove tecnologie) che ci proiettano nel futuro. Anche i vecchi modelli organizzativi aziendali tutto il mondo ci dice che sono desueti o non attraenti per i talenti che noi cerchiamo. L’intelligenza sta nella flessibilità, nell’allargare il più possibile il bacino dei talenti».
Le competenze richieste oggi cambiano rapidamente e il percorso di carriera ha preso una piega nuova.
«L’esperienza non è più legata alla seniority. In certi contesti, abbiamo giovani molto più esperti di professionisti. La narrazione del passaggio di testimone non trova spazio nella società d’oggi. Credo che l’unico modello sia quello di una coesistenza rispettosa. E ai giovani, per farsi spazio, dico: siate gentili e abbiate visione».
Il lavoro femminile è in continua crescita. Nonostante i progressi, il divario di genere persiste. Soprattutto nelle posizioni apicali. Tra gli ostacoli alle carriere femminili c’è anche un tema di conciliazione. Che cosa ne pensa delle politiche improntate a favorire la diversità nei consigli di amministrazione?
«Le quote per aumentare la presenza delle donne nei cda le ritengo un progetto utile. Ma come ogni progetto ha una data di inizio e una data di fine. Quando ho iniziato ad occuparmi di corporate governance, non c’erano donne nei cda. Oggi le mie tre figlie vedono che esiste uno spazio per loro, se vorranno provare e avranno il talento e la capacità di farlo. Abbiamo una fotografia che ci rappresenta nella parte apicale del mondo del lavoro. Non è però stato un progetto risolutivo. L’effetto valanga sulle aziende non è partito a tutti i livelli. Si è creato un effetto emulativo, ma non si è innescato un percorso di crescita a livello dirigenziale intermedio. Ci sono ancora tante donne che hanno lasciato il lavoro perché ci sono temi di welfare e di costo-opportunità. Secondo me sul tema della parità di genere è mancato il senso dell’urgenza. È stato affrontato in modo sfilacciato. Senza essere accompagnato, ad esempio, da riforme fiscali che facilitassero l’ingresso o il rientro delle donne nel mondo del lavoro».