L'intervista

domenica 17 Settembre, 2023

Cattaneo: «Carne coltivata, nei divieti non c’è nulla di razionale»

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Oggi la biologa e senatrice a vita è a Trento per un doppio appuntamento. «La scienza - dice - è il seme della nostra democrazia»

«Dopo quasi trent’anni di ricerca, ho imparato che si “continua” a diventare scienziati, giorno dopo giorno, sentendo la responsabilità verso la propria attività di ricerca, le persone, le speranze, i fondi che ti vengono affidati per progredire. Si impara l’audacia di dubitare (anche delle proprie idee) e la temerarietà di dissentire». Lo scrive la senatrice a vita Elena Cattaneo in «Ogni giorno. Tra scienza e politica» (Mondadori 2016). Professoressa di Farmacologia, direttrice all’Università Statale di Milano del Laboratorio di Biologia delle Cellule Staminali e Farmacologia delle Malattie Neurodegenerative, è nota per i suoi studi sulla malattia di Huntington. Attività scientifica e funzione pubblica si incrociano anche nella sua presenza a Trento, domani 18 settembre, con un doppio appuntamento aperto alla cittadinanza. Al mattino, alle 11 in aula 7 della Facoltà di Giurisprudenza, sarà la prima ospite di un ciclo di incontri dal titolo «Libera scienza: quanto libera? E quale scienza?», in dialogo con i professori Simone Penasa e Stefano Gattei. Nel pomeriggio invece, alle 17.30 al Muse, si confronterà con il professor Giorgio Vallortigara intorno al tema «La ricerca è fiducia nel futuro».
Riprendiamo l titolo del seminario che terrà domani mattina, nel primo giorno dell’anno accademico. Qual è la sua idea di «scienza libera»?
«La libertà è una caratteristica imprescindibile della scienza, lo ricorda anche la nostra Costituzione. Quando si studia qualcosa di nuovo bisogna avere la possibilità di sperimentare ogni idea: escludere a priori una strada potrebbe voler dire rinunciare ad accrescere la nostra conoscenza e a migliorare le nostre vite. Perché questa libertà si realizzi servono anche competizione tra le idee e trasparenza di regole e procedure. È impossibile immaginare dove e quando nascerà la prossima grande scoperta, o da chi arriverà: l’imprevedibilità della scienza è forse una delle sue caratteristiche più affascinanti. Inoltre credo che l’”invenzione” della scienza, come metodo scientifico di analisi della realtà, libero da dogmi, preconcetti e ideologie, sia stata un fattore essenziale per la nascita delle moderne democrazie».
Come sta il nostro Paese quanto a libertà scientifica?
«L’Italia è un Paese capace di imprese conoscitive incredibili e, nello stesso tempo, di chiusure miopi e insensate che ancora oggi negano ai nostri studiosi la possibilità di progredire nella conoscenza in campi che riguardano anche la nostra salute. Le cellule staminali embrionali, gli ogm, la sperimentazione animale e la più attuale carne coltivata sono solo alcuni esempi. Non c’è niente di razionale nei divieti imposti per legge in questi ambiti alla ricerca italiana, solo interessi di specifiche lobby, dogmi o pura necessità di consenso. Lo si capisce anche perché spesso quello che vietiamo di produrre in Italia lo importiamo dall’estero. La ricerca del mio laboratorio è dedicata a una malattia neurodegenerativa, la corea di Huntington. Quando abbiamo capito che le staminali embrionali potevano rappresentare una possibilità di cura abbiamo iniziato a studiarle. Siamo stati contestati, ma siamo andati avanti senza sottrarci al confronto, forti dei dati che stavamo raccogliendo».
Nel corso della sua carriera ha incontrato impedimenti – per usare le sue parole – alle libertà «di ricerca», «di scelta», «di movimento»?
«Non ho mai rinunciato a denunciare situazioni che potessero limitare la libertà, mia e altrui, fin da quando ero una ricercatrice. Restando alle staminali, nel 2009, con due colleghe facemmo ricorso contro un bando pubblico che escludeva, senza ragione scientifica, progetti che prevedevano l’impiego di cellule staminali embrionali umane. Nel 2016, da Senatrice a vita, ho sollevato il caso di un professore che in Senato aveva presentato alcuni suoi studi sugli Ogm i cui risultati erano manipolati. Difendere la libertà di tutti è fra i più importanti compiti di ogni studioso. Da anni seguo il caso di Ahmadreza Djalali, medico e ricercatore iraniano, esperto di medicina dei disastri a cui, ormai da sette anni, è stata negata ogni libertà e diritto. Storie come queste ricordano che diritti e libertà fondamentali come quella di studiare non devono essere mai date per scontate, ma sempre difese».
In questi giorni nelle sale c’è il film «Oppenheimer» di Christopher Nolan. Secondo lei la scienza può prescindere da considerazioni etico-morali rispetto agli usi delle scoperte scientifiche?
«Non ho visto il film, ma credo che la vicenda raccontata abbia rappresentato il punto di non ritorno perché la comunità degli studiosi maturasse la piena consapevolezza di sviluppare forme di “autoregolazione“ rispetto alle possibili ricadute di una scoperta. Proprio nel campo della fisica, molti scienziati si sono impegnati per la pace, penso al Manifesto di Russell ed Einstein del 1955, al movimento per il disarmo nucleare delle Pugwash Conferences, Nobel per la Pace 1995, o alle Conferenze del gruppo di lavoro per il controllo degli armamenti di Edoardo Amaldi. Fisica per la pace (Carozzi 2017), del compianto Pietro Greco, è una preziosa rassegna di queste e altre iniziative. Credo che la scienza si compia solo nel momento in cui diventa un’impresa conoscitiva che ha dimensioni e ricadute sociali, contribuendo a un miglioramento delle condizioni di vita per più cittadini possibili. Oggi, sull’utilità e l’eticità di una ricerca scientifica sono coinvolti, su più livelli di responsabilità, chi fa la ricerca, chi la valuta e il comitato etico che vigila sulla sua appropriatezza. Ed è importante che siano gli studiosi per primi a comunicare ciò che scoprono, evitando strumentalizzazioni mediatiche».
Nella recente pandemia, come si è coniugato il difficile binomio scienza e libertà?
«È stata decisiva la possibilità di lavorare all’unisono, da tutti i laboratori del mondo, per partecipare alla corsa contro il tempo nello scoprire il più possibile di quel minuscolo nemico che ha messo in scacco il mondo, e soprattutto per trovare un vaccino, che è arrivato in un tempo talmente breve da sembrare fantascienza. Tutto questo si è potuto ottenere grazie alla sperimentazione animale che molti in Italia vorrebbero proibire e al coraggio di investire su ricerche, come quelle sull’mRNA della «madre» del vaccino Pfizer Katalin Karikò, che fino a pochi anni prima sembravano bloccate in un vicolo cieco».
È da poco uscito il volume «Genere e accademia. Carriere, culture e politiche» (il Mulino 2023), curato da Barbara Poggio e Manuela Naldini: una ricerca sul problema delle disparità di genere in accademia e sui processi che contribuiscono a riprodurle. Quanto il genere incide sulla libertà di fare scienza?
«Credo che, almeno nella nostra parte del mondo, il fatto di essere donna non limiti tanto la libertà di ricerca quanto le possibilità di carriera. Le statistiche certificano come le donne, dopo una lunga rincorsa, abbiano raggiunto e in alcuni casi superato i colleghi uomini sul fronte della formazione, ma anche come, ai livelli professionali superiori, la tendenza si inverta e, man mano che si sale, la forbice si allarghi, anche se meno rispetto ad anni fa. È in corso una rivoluzione di cui oggi vediamo solo i primi risultati. Al di là dei numeri, credo che la cosa più importante, non ancora scontata, sia che le ragazze si sentano libere di realizzarsi in qualunque campo sentano più affine ai loro talenti, senza paura di puntare ai massimi livelli».