La rubrica
mercoledì 2 Luglio, 2025
Brad Pitt e il riscatto (che funziona) dell’outsider, il techno-thriller di Johnstone, il remake in 4K del successo di Lars von Trier: cosa vedere al cinema
di Michele Bellio
Da non perdere, in streaming, un grande classico: «Chi ha incastrato Roger Rabbit?»

F1 – IL FILM
(F1, USA 2025, 155 min.) Regia di Joseph Kosinski, con Brad Pitt, Javier Bardem, Kerry Condon
Spettacolare e coinvolgente, F1 conferma Kosinski, autore di Top Gun: Maverick, come uno dei registi hollywoodiani di oggi più abili nel rileggere il mito americano in chiave contemporanea. Brad Pitt interpreta Sonny Hayes, ex promessa della Formula 1 che ha interrotto la carriera dopo un incidente devastante negli anni ’90. L’incipit ci porta nella sua mente, alternando con eleganza le onde dell’oceano alle sgranate immagini di repertorio del tragico momento, sintetizzando la fine di un sogno e l’inizio di un percorso di caduta e rinascita. Richiamato in pista dal manager interpretato da Javier Bardem per affiancare il giovane talento di un team sull’orlo del fallimento, Hayes accetta la sfida e si trova a rivivere le emozioni (e i rischi) di un mondo che aveva lasciato con l’amaro in bocca.
I titoli di testa compaiono solo ora, dopo la proposta che dà il via alla storia, con un ritmo narrativo calibrato in modo millimetrico. Il seguito si sviluppa in modo canonico, per non dire risaputo, ma funziona proprio perché Kosinski abbraccia pienamente questa struttura: è il racconto di un outsider, un cowboy solitario, che torna per affrontare i suoi fantasmi, trasformarsi da cavallo selvaggio in figura guida e ridare senso al proprio talento attraverso la relazione con l’altro. Visivamente il film è uno spasso: il lavoro sulle gare è mozzafiato, anche grazie alla collaborazione diretta della Formula 1, che ha messo a disposizione location, piloti e materiali, con risultati mai visti prima in un’opera di fiction. L’impatto scenico dei GP, tra fuochi d’artificio, bandiere tracciate da aerei e dettagli tecnici dei paddock, è inevitabilmente parte integrante del fascino. Pitt, pur interpretando un pilota di età ormai non più credibile per la categoria, riesce a rendere il tutto verosimile grazie alla costruzione di una mitologia attorno al suo personaggio.
Le battute sul gap generazionale (“Avrà 80 anni”, dice ironico il suo giovane compagno di scuderia) sono perfette per giocare con l’inverosimiglianza senza negarla. Hayes è un ex giocatore d’azzardo, superstizioso, con calzini spaiati e rituali scaramantici, ma anche un pilota spregiudicato che corregge le carenze della vettura con esperienze e trovate al limite della correttezza (“Chi ha parlato di sicurezza?”). Non mancano le gag, i momenti di umorismo che costruiscono il personaggio anche attraverso gli occhi degli altri: “È molto punk rock per il brand”, lo definisce uno dei manager. La colonna sonora firmata da Hans Zimmer alterna come di consueto tensione e pomposità, ma è più sfaccettata di quanto non sembri e azzecca momenti come quello con We Will Rock You, suonata durante il GP di Silverstone, che trasformano la corsa in rituale collettivo. Se la love story risulta un po’ posticcia e funzionale solo come ulteriore tratteggio del protagonista, molto più elaborato è invece il legame che si sviluppa con il giovane compagno di team, con la scena di Monza che rappresenta il momento di svolta emotiva. Entrambi hanno perso il proprio genitore a 13 anni e Hayes si trasforma lentamente in padre putativo. Il risultato è un’opera americana profondamente classica, nella costruzione e nei riferimenti (da Il cavaliere della valle solitaria a Lo spaccone, passando per Robert Redford e Sylvester Stallone), ma al tempo stesso contemporanea nella messinscena, nel ritmo, nella capacità di lavorare sul reale per costruire la leggenda. Due ore e mezza che scorrono via come un giro di pista, capaci di coinvolgere appassionati e neofiti, e che trovano nell’accurata stratificazione del mito, non nella sorpresa narrativa, il loro centro di gravità. Se non si cerca altro, se ne esce molto soddisfatti.
M3GAN 2.0
(USA 2025, 120 min.) Regia di Gerard Johnstone, con Allison Williams, Violet McGraw
Dopo il sorprendente successo commerciale del primo M3GAN (2023), tra i titoli simbolo dell’estetica produttiva di James Wan, arriva il secondo capitolo, che prende però direzioni nuove. M3GAN 2.0 abbandona in buona parte la dimensione horror per spingere sull’acceleratore della fantascienza e del thriller tecnologico, lasciando il terrore sullo sfondo per privilegiare riflessioni – a volte acute, a volte più didascaliche – sul nostro rapporto con l’intelligenza artificiale. Che l’atmosfera sia piuttosto cambiata lo si capisce fin dall’incipit: la Difesa americana ha creato, a partire dalla stessa tecnologia di M3GAN, una nuova arma chiamata Amelia. Bastano pochi minuti per perderne il controllo: Amelia si connette alle reti globali e inizia un attacco coordinato attraverso tutti i dispositivi connessi. La premessa, da techno-thriller anni Novanta, apre a uno scenario apocalittico che diventa cornice per una narrazione più spettacolare del primo film, ma anche più prevedibile e appesantita da una certa ridondanza. Le suggestioni non mancano: si parla di tecnologia etica, di IA come minaccia esistenziale e dell’impreparazione strutturale della nostra società a fronteggiare un blackout digitale totale. Ma sono più i momenti in cui si ride che quelli in cui si prova autentica tensione. Alcune gag sono riuscitissime: i dispositivi domestici che si organizzano in una sorta di Home Alone digitale – dalla macchina del ghiaccio ai cassetti della cucina – oppure il provvisorio corpo da Teletubby in plastica in cui M3GAN viene caricata in emergenza.
Anche il rigido anti-tecnologico Cristiàn (da lui stesso pronunciato con insistenza alla francese) è una trovata azzeccata. M3GAN continua a funzionare come personaggio: il suo humour secco e dissacrante (“Cambiami la faccia e io cambio la tua”) resta uno degli elementi più riusciti del film. E c’è almeno una scena – quella della canzone “This Woman’s Work” – che colpisce nel segno e si collega alle trovate del prototipo. Eppure l’operazione non ha la brillantezza dell’originale. Più ricco e ambizioso, M3GAN 2.0 è anche più gonfio di citazioni e meno capace di sorprendere. I momenti spettacolari ci sono, ma la regia appare più funzionale che ispirata, mentre la costruzione della trama, con i dubbi genitoriali della protagonista, finisce per girare un po’ a vuoto. Manca l’effetto sorpresa del primo episodio e si sente, nel complesso, una minore presenza dello sguardo visionario di Wan. In definitiva, un film soltanto godibile, più divertente che inquietante, che offre spunti e intrattenimento senza riuscire davvero a rilanciare la forza del concept originario. Per i fan, comunque, c’è materiale per una gradevole serata.
EVENTO SPECIALE
LE ONDE DEL DESTINO – RIEDIZIONE 4K
(Breaking the Waves, Danimarca/Svezia/Francia/Paesi Bassi/Norvegia 1996, 159 min.) Regia di Lars von Trier, con Emily Watson, Stellan Skarsgård, Katrin Cartlidge
Gran Premio della Giuria a Cannes nel 1996, Le onde del destino è il film che ha definitivamente consacrato Lars von Trier al grande pubblico, segnando al contempo una svolta decisiva nella sua carriera: dalla provocazione cerebrale a un’idea di dramma più emotiva, viscerale, apertamente spirituale. Primo capitolo della cosiddetta “Trilogia del cuore d’oro”, proseguita poi con Idioti e Dancer in the Dark, che racconta storie di purezza assoluta destinate a scontrarsi tragicamente con le leggi imperscrutabili del mondo. Diviso in sette capitoli più prologo ed epilogo, il film è ambientato nel nord della Scozia, all’interno di una comunità calvinista severa e intransigente. Qui vive Bess, giovane donna fragile e devota, capace di un dialogo continuo con Dio che avviene sotto forma di auto-conversazioni tanto ingenue quanto disarmanti. Quando decide di sposare Jan, operaio scandinavo ateo impiegato su una piattaforma petrolifera, la comunità la guarda con sospetto.
L’unione, però, ha un’intensità totalizzante. Dopo la luna di miele, Jan torna al lavoro e Bess sprofonda in un senso di vuoto che diventa quasi patologico. Un incidente lascia Jan paralizzato. Non potendo più amarla fisicamente, le chiede di donarsi ad altri uomini e raccontargli poi tutto, per “vivere” ancora attraverso di lei. Bess accetta, credendo che quel sacrificio possa guarirlo. Von Trier, nel raccontare questa storia lacerante, guarda esplicitamente ai maestri scandinavi del cinema spirituale – Dreyer su tutti – ma lo fa contaminando il racconto con elementi eterodossi: la macchina a mano nervosa, la grana della pellicola, gli intermezzi visivi dai colori saturi accompagnati da hit anni ’70, lo stile quasi dogmatico che però non rinuncia a incursioni nel kitsch. Il contrasto tra la sacralità del contenuto e la libertà della forma genera un’opera che ancora oggi divide, tra chi la considera un capolavoro e chi un esercizio manierista. Rivederlo oggi, nella versione restaurata in 4K distribuita da Movies Inspired, significa forse poterne osservare meglio le scelte registiche e il lavoro sulla scrittura. Ma soprattutto significa riscoprire la straordinaria interpretazione di Emily Watson, al suo debutto cinematografico: un corpo e un volto capaci di attraversare tutte le sfumature del dolore e del desiderio d’amore. A distanza di quasi trent’anni, la carica provocatoria si è affievolita, ma resta l‘idea di un film che ci interroga sul giudizio morale, sulla compassione, sul senso del sacrificio. Per i fan di von Trier è un’opera fondamentale; per altri può facilmente risultare irritante. Ma resta un film da affrontare e discutere, che difficilmente lascia indifferenti.
STREAMING – PERLE DA RECUPERARE
CHI HA INCASTRATO ROGER RABBIT?
DISPONIBILE SU RAIPLAY
(Who Framed Roger Rabbit, USA 1988, 104 min.) Regia di Robert Zemeckis, con Bob Hoskins, Christopher Lloyd, Joanna Cassidy
Uno dei film più rappresentativi degli anni Ottanta e tra i massimi successi del decennio (oltre 350 milioni di dollari al box office mondiale), Chi ha incastrato Roger Rabbit è ancora oggi un modello inarrivabile di ritmo, invenzioni narrative e commistione tra generi. Diretto da Robert Zemeckis e prodotto da Steven Spielberg, raggiunge una perfezione prima sconosciuta nel far interagire cartoni animati e attori in carne e ossa. Siamo nella Los Angeles degli anni Quaranta. Eddie Valiant (un grande Bob Hoskins), detective disilluso e alcolizzato, accetta controvoglia un incarico riguardante Roger Rabbit, star dei cartoon. Nel mondo del film cartoni e umani convivono: i primi lavorano negli studios come attori e vivono a Cartoonia, una città creata da Marvin Acme, vittima di un misterioso delitto, di cui è accusato Roger. Ma nell’aria si respira qualcosa di losco: la distruzione di Cartoonia e l’acquisizione di Los Angeles da parte di un oscuro giudice, pronto a far sparire per sempre i personaggi animati.
Zemeckis e Spielberg creano un mondo che fonde il noir classico hollywoodiano con l’energia anarchica dell’animazione, inserendo personaggi Warner Bros e Disney nella stessa scena (un unicum storico) e giocando con il linguaggio cinematografico. Memorabile il cortometraggio iniziale con Roger e Baby Herman, perfetto omaggio filologico ai cartoon dell’epoca, e straordinaria la fluidità con cui i personaggi animati si muovono tra oggetti reali, in un balletto continuo di gag, scoperte e dettagli visivi. La sceneggiatura è un meccanismo a orologeria: dietro la trama investigativa e la leggerezza apparente si nasconde una riflessione sul valore della comicità e sul ruolo dell’immaginazione. E al centro l’eroismo stanco di Eddie Valiant, la cui trasformazione passa proprio per il recupero della capacità di divertirsi. I personaggi sono tutti indimenticabili: le iene che rischiano di morire dal ridere, Benny il taxi, la fidanzata di Eddie che sembra uscita da un saloon, il terribile Giudice Doom interpretato da Christopher Lloyd e naturalmente Jessica Rabbit, vera icona pop, emblema della seduzione e dell’ambiguità, doppiata nella versione originale da Kathleen Turner. Premiato con quattro Oscar, tra cui effetti speciali e montaggio, Chi ha incastrato Roger Rabbit resta oggi un vertice assoluto di tecnica e intelligenza cinematografica. Un film che ha fatto epoca e che continua ad ammaliare spettatori di tutte le età. Da vedere e rivedere.
l'intervista
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