Spettacoli

sabato 5 Novembre, 2022

Andrea Pallaoro si racconta: «Esploro le ferite ispirato da Buñuel»

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In tour tra Europa e Usa con il film "Monica" «I personaggi che vivono ai margini o che non sono accettati o compresi dalla maggior parte della società mi affascinano e interessano molto»

Mentre si attende l’uscita a dicembre nelle sale italiane del suo ultimo film Monica, l’autore e regista Andrea Pallaoro ci offre un excursus della sua carriera, tra poetica e visione artistica, riferimenti culturali e sentimenti di appartenenza.
Con Monica, Pallaoro è tornato a esplorare le tematiche a lui più care fin dagli esordi, come il rapporto tra l’individuo e la società, l’abbandono e il perdono, la complessità della ricerca interiore e dell’affermazione della propria identità in relazione alla comunità e alla famiglia.
Dopo la selezione in concorso alla recente mostra del cinema di Venezia, che percorso ha intrapreso il film Monica?
Subito dopo Venezia, Monica ha vinto il premio come miglior film al festival di Annecy. Prima della distribuzione nelle sale in Italia che I Wonder sta valutando per la prima settimana di dicembre, sto accompagnando il film in giro per il mondo. Ho iniziato con Busan e Chicago, per proseguire il viaggio in varie città tra cui Los Angeles, Stoccolma, Gijón, Marrackech, Tallinn, Goa, Madrid, Tbilisi. Osservare e interagire con le reazioni del pubblico in diverse parti del mondo è una fase particolarmente affascinante, che amo molto.

Cosa lega «Monica» ai suoi precedenti film e in cosa eventualmente si discosta?
«Monica si inserisce all’interno di una riflessione iniziata con i miei film precedenti sulle dinamiche, complessità e conseguenze dell’abbandono in cui la relazione tra l’individuo e la coppia, la famiglia, la società sono temi centrali. Ma mentre, per esempio, con Hannah (film del 2017 con Charlotte Rampling, ndr) osserviamo una donna che barcolla e scivola in una spirale sempre più straziante, in un crollo emotivo e psicologico in cui a poco a poco perde sempre di più la consapevolezza di se stessa e della sua identità, in Monica assistiamo quasi a un processo inverso: un’eroina moderna che si rialza, che perdona, che riesce a fare i conti con i traumi e le ferite del suo passato».

«Monica» può essere considerato anche un film politico, nel senso che dà spazio, volto e voce a figure che nel mondo, anche quello del cinema, faticosamente trovano cittadinanza come protagoniste? Ricordiamo che l’attrice Trace Lysette, così come il personaggio che interpreta, è una donna transgender.
«Certo. In tal senso penso che possa essere considerato un film politico. I personaggi che vivono ai margini o che non sono accettati o compresi dalla maggior parte della società mi affascinano e interessano molto e penso che offrano diverse opportunità di introspezione e catarsi per lo spettatore. Ci tengo a precisare però che questo film non nasce propriamente da un impulso politico, né vuole essere un manifesto. Detto questo, viviamo in un momento storico particolarmente allarmante, in cui si stanno mettendo in discussione anche diritti fondamentali dati per acquisiti e mi auguro che l’esplorazione del mondo interiore di Monica contribuisca, nel suo piccolo, ad abbattere i muri della paura e dell’ignoranza e a diffondere una maggiore consapevolezza».

In tutti i suoi film, da Wunderkammer a Medeas, da Hannah a Monica, emerge una certa imprescindibilità delle protagoniste femminili, nel senso che appare impossibile immaginare quelle storie interpretate da persone diverse da quelle che ha scelto. È così? Come lavora sul coinvolgimento delle attrici e quale importanza conferisce loro rispetto all’intero processo creativo?
«I miei film sono indubbiamente costruiti attorno alle delicate e complesse performance degli attori. Nel caso di Hannah per esempio il film era stato scritto per Charlotte Rampling fin dal primissimo momento, mentre per Monica ho incontrato più di trenta candidate per il ruolo e ci ho messo più di un anno a trovare Trace Lysette. In ogni caso il loro ruolo nel mio processo creativo è fondamentale e si basa su un reciproco rapporto di fiducia e intimità, cosa che ritengo assolutamente fondamentale per il tipo di introspezione e collaborazione che questo tipo di esplorazione richiede».

Le sue opere si soffermano a lungo sulla psicologia delle persone, scavando con profondità e delicatezza nell’identità e nella memoria dell’animo umano, nella complessità delle relazioni. Da dove trae ispirazione per le storie che rappresenta?
«Penso che le storie che racconto nei miei film nascano dal desiderio e bisogno di approfondire ed esplorare diversi universi psicologici ed emotivi. Detto questo, trovo ispirazione sia dentro di me che nel mondo che mi circonda. I personaggi nei miei film sono generalmente un insieme di diverse parti di me, oltre che di varie persone a me care, e riflettono, anche se indirettamente, alcune mie esperienze».

Quali sono i riferimenti cinematografici in cui affonda la sua poetica? Ci sono stati incontri determinanti nel corso della sua carriera che le hanno aperto una visione sulla strada da intraprendere?
«La lista è lunga. Michelangelo Antonioni, Rainer Werner Fassbinder, John Cassavetes, Bela Tarr, Lucrecia Martel, Luis Buñuel, Tsai Ming Liang, Chantal Akerman sono solo alcuni degli autori che sono stati e che continuano a essere importanti fonti di ispirazione per me. Il cinema è un’arte in cui la collaborazione è un principio fondamentale e in questo mi sento molto fortunato perché negli anni ho avuto modo di confrontarmi, creare, ed entrare in intimità con artisti e professionisti di altissimo livello che hanno avuto un ruolo determinante nella mia evoluzione: da Charlotte Rampling a Patricia Clarkson, da Trace Lysette a Catalina Sandino Moreno, Da Emily Browning ad Adriana Barraza. Per non parlare dei miei capi reparto come i miei direttori della fotografia Chayse Irvin e Katelin Arizmendi, il mio co-sceneggiatore Orlando Tirado, la mia montatrice Paola Freddi, la mia assistente alla regia Laura Klein. Nei miei film ogni scelta, narrativa, formale o estetica – dalla scrittura della sceneggiatura alla composizione delle inquadrature, al controllo delle linee e del colore, dal montaggio essenziale al ruolo esclusivamente diegetico del suono – è il risultato di un percorso di collaborazione che esprime la volontà di difendere un rapporto con lo spettatore fondato non sull’imposizione di risposte, spiegazioni, chiavi di lettura, ma sulla libertà della singola interpretazione. È un cinema in cui i personaggi sono raccontati attraverso gesti e sfumature, cercando di restituire la complessità del loro mondo interiore, e chiedendo a ogni spettatore di elaborare un proprio pensiero personale, un’interpretazione intima e individuale. Come regista, sono infatti interessato a quei momenti cinematografici che suscitano sensazioni di ambiguità e che quindi permettano allo spettatore di scoprirsi, incitando così l’interrogazione personale e individuale. È questo per me un livello di pensiero più interessante, stimolante, e catartico in quanto un pensiero in azione rispetto al cinema che esprime un pensiero già costituito, in conserva».

Infine, ha trascorso la prima metà della sua vita in Italia e la seconda metà, a oggi, negli Stati Uniti. Quali sono i suoi sentimenti, ma anche la sua idea rispetto a due diversi sistemi socio-culturali, nei confronti di queste due «patrie»?
«Sono due mondi chiaramente molto diversi tra loro che però nel contesto del mio percorso riconosco complementari l’uno all’altro. Il legame che ho con l’Italia è indubbiamente profondo e indissolubile, una parte importantissima della mia identità, di chi sono e di come interpreto la realtà che mi circonda. Allo stesso tempo non posso fare a meno di riconoscere il ruolo fondamentale che città come Los Angeles e New York hanno avuto e continuano ad avere nella mia vita e il senso di libertà che mi infondono. Questo essere tra due mondi mi fa sentire in una costante condizione di straniero, di emigrato sia nella mia vita negli Stati Uniti che nei miei ritorni in Italia. È una condizione, questa, con la quale mi sento molto in sintonia e con la quale mi identifico molto».

L’AUTORE, L’OPERA
Andrea Pallaoro è nato a Trento nel 1982, ma ben presto si è trasferito negli Stati Uniti per studiare regia cinematografica. Attualmente vive tra Los Angeles e New York.
Il suo primo lungometraggio, Medeas, è stato presentato nel 2013 alla Mostra del cinema di Venezia e ha ricevuto numerosi premi in prestigiosi festival internazionali.
Tornato a Venezia nel 2017 in concorso con Hannah, la protagonista Charlotte Rampling ha vinto la «Coppa Volpi» come migliore attrice.
L’ultima opera, Monica, con Trace Lysette, Patricia Clarkson, Adriana Barraza, Emily Browning e Joshua Close, delinea il ritratto intimo di una donna che esplora i temi universali dell’abbandono e dell’accettazione, del riscatto e del perdono.
Anche questa sua ultima opera è transitata dalla Mostra del cinema lo scorso settembre. Racconta la storia di una donna transgender, che torna a casa dopo una lunga assenza, ritrovando sua madre e il resto della sua famiglia, da cui si era allontanata.