l'intervista

venerdì 4 Luglio, 2025

Alessandra Campedelli: «La nostra libertà è un valore per cui lottare sempre. Io, donna occidentale, arrivata in Iran e Pakistan ero limitata come loro»

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La coach di pallavolo trentina ha allenato le nazionali femminili di due Paesi islamici. Sabato presenterà il suo memoir «Io posso»

La libertà è un valore universale che ormai, in Occidente, diamo per scontato ma che per molti, soprattutto molte donne, non lo è affatto. Lo ha vissuto sulla propria pelle Alessandra Campedelli, coach di pallavolo trentina che negli ultimi anni ha allenato la nazionale femminile Iraniana e Pakistana e che ha recentemente pubblicato il suo memoir «Io posso» (ed Baldini & Castoldi). Un inno alla libertà delle donne che deve, però, fare i conti con una miriade di limitazioni e contrasti e che sabato 5 luglio verrà presentato ad Arco nel Palazzo dei Panni alle ore 20.30.
Campedelli, perché ha deciso di scrivere un libro?
«Ti dico la verità, tempo fa, già al mio ritorno dall’Iran, una casa editrice mi aveva proposto di scrivere un libro ma voleva mettere una scrittrice che scrivesse per me. Parlandole, ho capito che volevano qualcosa di diverso da quello che potevo dare io. Poi dal Pakistan ho iniziato a scrivere un diario per il T: da lì è proseguita questa mia avventura nella stesura del memoir. Posso dire che questo libro è mio, scritto di mio pugno e racconta esattamente quello che ho vissuto senza nessuna lettura, interpretazione o invenzione. Per me era importante che uscisse una cosa autentica».
«Io posso», come hai scelto questo titolo e cosa significa?
«Innanzitutto, devo ringraziare la casa editrice che mi ha concesso di utilizzare questo titolo. È nato dall’idea del “io, qui come donna occidentale posso scegliere se parlare se non parlare, come vestirmi, cosa imparare, se voglio imparare, dove andare”. Perché io qui, posso».
Una libertà che forse in occidente si dà per scontata: immagino che dopo le esperienze in Iran e in Pakistan sia tornata in Italia con una consapevolezza diversa…
«Sì, assolutamente. E nel libro si trovano molti contrasti, perché io posso ma le atlete che ho incontrato non sempre possono anzi quasi mai possono scegliere. E mi sono resa conto come anch’io donna occidentale, istruita, autonoma e assolutamente al passo con i tempi, in quella cultura non potevo, esattamente come loro. Quindi, racconto proprio la sensazione e la frustrazione del non poter fare in alcune situazioni. Questo titolo, questo libro per me ha una valenza importante e racchiude un pensiero rivolto al futuro: ricordiamoci che siamo fortunate, perché noi possiamo. Ma allo stesso tempo dobbiamo continuare a lavorare affinché questo non cambi. Lo abbiamo visto: in Iran in una settimana è cambiato tutto».
Nella foto della copertina lei porta il velo all’iraniana…
«È stata scelta dalla casa editrice ma sono contenta lo abbia fatto perché ha un significato molto importante».
Quale?
«È una foto che ho pubblicato sui social quando ero in Iran e immortalava il momento in cui ho provato per la prima volta a indossare la divisa completa con cui si allenavano le ragazze. A me sembrava davvero impossibile che loro riuscissero ad allenarsi, a muoversi, a sudare a toccare la palla tutte coperte. Ho voluto mettermi nei loro panni e provare ad allenarmi anch’io come loro, nelle loro condizioni. Avevo il desiderio estremo di provare fisicamente come si può in un fondamentale tecnico come il bagher, riuscire ad avere la sensibilità pur non sperimentando il tocco con la palla reale».
La differenza con un allenamento in shorts e canottiera è abissale, immagino…
«Allenarsi così è costringente, costrittivo, limitante. Con le temperature alte e senza aria condizionata era davvero difficile. Così, dopo la prova ho cambiato le metodologie di allenamento, i momenti di recupero e dell’acqua. Le atlete perdevano oltre 3 litri di sudore ogni allenamento ed erano senza staff medico che potesse lavorare a una corretta integrazione».
Le esperienze in Iran e Pakistan l’hanno cambiata?
«Molto. Tra gli aspetti che diciamo ho allenato di più c’è la pazienza: una caratteristica che non era proprio il mio forte. Ho imparato ad aspettare i loro ritmi che sono assolutamente diversi da quelli delle atlete occidentali. Ho dovuto scendere a compromessi per poter proporre alle atlete quello che volevo. A loro serviva più tempo per digerire, perché si trattava di una cultura con esigenze diverse, ritmi diversi».
Che idea si è fatta delle donne iraniane e pakistane?
«Sono molto diverse fra loro. Le donne iraniane vivono la religione come un’oppressione e, specialmente negli ultimi anni, hanno avuto la possibilità di vedere che esiste altro e quindi hanno maturato un’idea perfetta di quello che vogliono cambiare. Lottano per qualcosa di diverso e sono disponibili a tutto per lottare. Mentre è dall’altra parte, le pakistane sono sicuramente 50 anni indietro rispetto alle iraniane. Dimostrano di avere un bisogno estremo della religione sebbene possano scegliere liberamente. Io avevo solo due o tre atlete con il velo, le altre avevano scelto di non indossarlo. Una in particolare, Rabia, si allenava con il niqab e ricordo che mi disse “io ho promesso questo alla mia famiglia per praticare sport e non sposarmi presto”. In loro non c’è un atteggiamento di rivolta, anzi. Le atlete pakistane mi hanno chiesto di spostare gli allenamenti la sera per poter osservare il Ramadan. In Iran le ragazze non vedevano l’ora di essere convocate in nazionale per poter saltare il digiuno».
È cambiato il suo modo di allenare le atlete dopo queste esperienze?
«Sì e vivo anche una frustrazione diversa, perché mi piacerebbe far capire alle mie atlete che siamo fortunate e che giocare a pallavolo dovrebbe riempirci di gioia, dovrebbe essere un’opportunità di costruzione, di crescita, di relazione. Ogni tanto sopporto meno il fatto che da noi sia tutto scontato. In Iran e in Pakistan ho anche scoperto il valore della gratitudine e ora più che mai mi rendo conto che per la maggior parte dei nostri giovani (ma non solo) è un valore sconosciuto. Viviamo proiettati sull’egocentrismo più acuto dove tutto deve essere incentrato su di me e su mia figlia-atleta e tutto quello che non va bene per raggiungere quello che vuole mia figlia è da condannare. Non è stato facilissimo tornare ad allenare qui».
È ancora in contatto con alcune atlete?
«Con molte di loro. In questo momento sono chiaramente molto preoccupata per quello che sta succedendo. Loro mi mandano messaggi, foto e mi raccomandano sempre di garantire massimo riserbo, perché non vogliono si venga a sapere. In Iran sono molto controllate ma comunque vogliono raccontare e soprattutto sapere che cosa conosce il mondo di loro. Questo è uno dei motivi per cui ho scelto di scrivere il libro: per tenere accesa la fiamma dell’informazione al di là del momento preciso storico che allarma solo quando succedono cose brutte».
Quali sono i piani per il suo futuro?
«In Pakistan è già stato avviato un progetto con le scuole assieme al Power Sport Academy e stiamo portando materiale nelle scuole, formando insegnanti-allenatrici per preparare giovani atlete. Come nazionale, mi piacerebbe allenare in un continente che non mi metta di fronte a squadre come Cina, Giappone e Corea».
Andrà in Africa?
«Probabile»