L'autrice
mercoledì 18 Settembre, 2024
di Paolo Morando
Pubblicato da Einaudi lo scorso anno, «Segreti e lacune» di Benedetta Tobagi (sottotitolo «Le stragi tra servizi segreti, magistratura e governo») è il libro del mese dell’Istituto storico italo-germanico della Fondazione Bruno Kessler: l’autrice ne parlerà domani alle 17.30 nell’aula grande di Fbk in via Santa Croce, in dialogo con Laura Di Fabio di FBK e il giornalista, firma del «T», Carlo Martinelli.
Partiamo dal concetto di doppia lealtà, senza la quale una qualsiasi analisi dei servizi segreti italiani non va da nessuna parte.
«È opinione condivisa che non si può leggere la storia dello stragismo e dei depistaggi al di fuori dal vincolo internazionale della guerra fredda, che si traduce nell’espressione di doppia lealtà coniata da Franco De Felice alla caduta del muro. È un’espressione “parlante”: ci dice che per una parte molto qualificata delle forze di sicurezza e dei servizi non esisteva solo il vincolo alla Costituzione, ma era altrettanto e a volte più cogente il vincolo all’anticomunismo. E ce lo hanno detto anche diversi generali».
Maletti del Sid, per citarne uno.
«Esatto. Ma anche Spiazzi al giudice Tamburino, quando lo invitò a rivolgersi ai suoi superiori. In questo libro però cerco anche di sottolineare come tutto questo vada letto insieme a interessi e cordate di potere italiane. E infatti ripercorro la trasformazione dei servizi e il ruolo della P2 non solo in relazione agli interessi dell’anticomunismo internazionale, ma anche alle dinamiche italiane. Questo nelle mie intenzioni getta anche un ponte verso le grandi stragi mafiose, nelle quali i depistaggi rimangono una costante. E vanno lette secondo dinamiche endogene, tutte italiane. Quando è caduto il muro ci fu un’enorme aspettativa: sapremo finalmente tutto sulle stragi, si diceva. Non è stato così. E questo libro vuole invitare a riflettere sul perché, distinguendo tra ciò che è indicibile politicamente e ciò che è solo temporaneamente segreto».
Un’ampia analisi è infatti dedicata a ciò che è stato fatto sparire.
«Questo è il punto, questa è l’essenza del potere: avere la facoltà di decidere quello che i cittadini sapranno anche in futuro. È un potere enorme, perché condiziona non solo il presente ma anche la storia che verrà».
Il potere politico resta sempre sullo sfondo. La domanda è: i servizi hanno depistato in nome della doppia lealtà o per rispondere a una volontà politica tutta italiana?
«Ho dato grande peso alla rete di potere occulta per eccellenza, cioè la P2, i cui rapporti internazionali erano importantissimi. I vertici della P2 avevano entrature ai massimi livelli a Washington nella destra repubblicana, e al tempo stesso la loggia faceva gli interessi anche del potere economico-finanziario italiano: controllava il principale quotidiano nazionale, decideva nomine… è insomma un perfetto esempio di come l’anticomunismo abbia coperto anche degli interessi spesso personali, di carriera: non possiamo prescindere da questa commistione. Ho cercato di evidenziare come nel momento in cui nasceva un servizio segreto civile, il Sisde, è proprio quest’ultimo che venne a trovarsi al centro delle vicende più controverse, mentre quello militare, il Sismi, iniziava a risalire la china, contribuendo anche alle indagini sulle stragi».
È davvero possibile ricostruire una storia su cui i documenti spesso sono stati fatti scomparire?
«Nel mondo accademico c’è chi dice che non si può scrivere la storia di vicende politico-criminali appunto perché non ci sono i documenti, ma in questo saggio sostengo che le lacune parlano: abbiamo prove che documenti sono stati distrutti, messi in disordine, sottratti, o che comunque non possiamo avere l’evidenza se esistono ancora o no. È un tema che mi stava molto a cuore: la ricerca deve assumersi delle responsabilità rispetto alle funzioni democratiche di riesame e ricostruzione come analisi critica della storia passata».
C’è un passaggio illuminante: un documento in cui un allora segretario del Cesis, cioè il coordinamento tra i servizi, chiede a questi se «indipendentemente dalla risultanze d’archivio», una circostanza specifica non potesse essere comunque vera «pur non risultando agli atti», chiedendone spiegazione a voce. E aggiungeva: «Accertamenti d’archivio non esauriscono la verifica della veridicità».
«Sì, è un documento a cui ho dato molta enfasi. Quanto viene nascosto induce un legittimo sospetto in chiave di paradigma indiziario. Nei documenti che ho esaminato ho cercato proprio annotazioni che avessero valenza anche antropologica, perché svelano atteggiamenti e modalità di comportamento del mondo dei servizi. Quello era in effetti un frammento rivelatore: quando hai evidenza di documenti che mancano e un coordinatore dei servizi segreti che insinua che non li stanno dando, chiedendo casomai di parlargliene a voce… ricordo l’emozione che ho provato leggendo quel passaggio. Mi sono detta: caspita, come nel film sulla Stasi, “Le vite degli altri”, che termina con una ditata di inchiostro rosso su un documento, che nel film corrisponde a una prova eclatante. La ricerca è fatta anche di ritrovamenti di questo genere di indizi, che spalancano questo tipo di riflessioni».
Nel libro si sottolinea anche molto quando, con l’avvento di Lugaresi al vertice del Sismi dopo lo scandalo P2, i servizi ci tengono a sottolineare la specificità della propria funzione anche a costo di continuare ad apparire reticenti. Banalmente: rendere pubblici i nomi dei propri informatori contraddice l’essenza stessa di un servizio segreto.
«Sì, sono spesso usati principi sacrosanti con finalità pessime. Pensiamo al caso eclatante di Maurizio Tramonte, informatore del Sid condannato in via definitiva per la strage di piazza della Loggia: è un elefante nella stanza. Al tempo stesso, in tutto il mondo la tutela delle fonti è un principio aureo. Sono campi di tensione che vanno sempre tenuti presente. E i cittadini devono ricordare che le modalità di controllo sono difficili. Ecco perché è importante il controllo politico a posteriori, attraverso una reale trasparenza archivistica gestita da personale qualificato, mentre purtroppo l’Italia sta andando invece nella direzione opposta».
Il libro nasce principalmente da documentazione messa a disposizione dai servizi, che hanno finanziato la stessa ricerca. Si è mai trovata in imbarazzo per questo?
«L’Università di Pavia, dove il 23 settembre presenteremo questo volume e l’altro di Mario De Prospo su Ustica, che ha beneficiato dell’altra borsa di studio, ha svolto una mediazione fondamentale attraverso il proprio autorevole comitato scientifico. Non sappiamo che cosa abbiano pensato i servizi delle nostre ricerche, ma devo dire che ho beneficiato di totale libertà: il libro lo dice fin dal titolo, parlando di lacune. Già nel colloquio di ammissione avevo però avanzato osservazioni critiche sulla declassificazione delle carte stabilita dalla direttiva Renzi, come peraltro ribadisco nel libro: faccio il punto proprio sui limiti di queste operazioni, che hanno grande valenza mediatica, ma se si va veramente a scavare ne emergono i limiti. Ho toccato con mano l’importanza di enti di ricerca indipendenti come l’Università, che ha eretto una sorta di muraglia cinese verso chi finanziava e poteva essere portatore del desiderio di valorizzare un’operazione d’immagine. Questo ha consentito invece totale libertà critica alla ricerca. E la possibilità di lanciare qualche allarme».
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