La storia

sabato 5 Novembre, 2022

Ventenne malato di schizofrenia cerca aiuto ma finisce in carcere. La madre: «Sta sempre peggio»

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La donna si era rivolta a un avvocato e a uno psichiatra, ma l'idea di sporgere querela per «obbligare» il giovane a ricevere le cure ha portato alla sua incarcerazione

Per la madre del ventenne schizofrenico che per otto mesi è stato rinchiuso in una cella del carcere di Trento la preoccupazione maggiore è questa: «Non l’ho più visto sorridere». E spiega: «Sono andata a trovarlo ogni settimana nell’orario di visite, vendendolo regredire sempre più». Prima era felice, a modo suo: «Scriveva tantissimo, testi per la musica. Mi chiedeva di leggere i suoi pezzi, di riprenderlo con il cellulare mentre cantava. Mio figlio è malato, lo so – ammette la donna – ma avrebbe bisogno di cure, non di andare in carcere o di essere legato a un letto». Il giovane è stato scarcerato nei giorni scorsi, dichiarato incompatibile con il regime carcerario a causa della sua patologia e non imputabile perché incapace di intendere e di volere al momento dei fatti. È stato trasferito nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Arco, inizialmente legato al letto, ritenuto «socialmente pericoloso».
La madre ricostruisce il tormentato percorso che ha portato suo figlio in cella. Nei mesi precedenti le sue crisi erano diventate sempre più violente: «Mi diceva di uscire di casa, mi implorava di lasciarlo solo perché non voleva fare del male a me durante i suoi momenti di aggressività». Lo psichiatra, ma anche l’avvocato che la assiste, la convincono a depositare una querela per violenza domestica. Per il legale un modo per proteggerla dalle crisi violente del figlio, per il medico la possibilità di «forzare e obbligare» il paziente all’assunzione della terapia. «L’ho fatta questa querela — ammette la donna — ma con la morte nel cuore. Ho voluto sottolineare però che mio figlio è malato, che non è un delinquente. Sta male, non risponde delle sue azioni, va aiutato».
A inizio marzo viene arrestato e portato nel carcere di Spini di Gardolo». Del suo stato di salute durante gli otto mesi richiuso in una cella rimane traccia nel carteggio tra la donna e i medici della struttura penitenziaria, documenti che la madre custodisce ordinati in una cartellina. «Il detenuto ha manifestato fin dall’ingresso una enorme difficoltà adattativa causata dalla grave patologia psichiatrica. Ha manifestato grosse difficoltà relazionali anche con i membri dell’equipe sanitaria, apparendo costantemente assorto in pensieri illogici ed occupato in comportamenti bizzarri, incongrui, disorganizzati. Non appare in grado di mantenere una soddisfacente igiene personale. Rimane a lungo assorto in un silenzio “autistico” per poi uscirne improvvisamente con comportamenti incongrui, bizzarri, magari eclatanti ed esplosivi». L’annotazione del 16 giugno è terribile: «Il detenuto cercava di cavarsi gli occhi con un cucchiaio di plastica, riferendo che voleva farlo per non vedere più brutte cose». Il medico del carcere informa che successivamente a questo episodio «veniva inviato in pronto soccorso al Santa Chiara per un eventuale ricovero». Che però non c’è stato, e la situazione, al ritorno in cella, è peggiorata: «Il detenuto — annota il medico del carcere — necessita quanto prima di un adeguato trattamento terapeutico-riabilitativo residenziale in una struttura psichiatrica».
La madre riordina le carte quasi ossessivamente, forse per celare la commozione: «Mio figlio non è un delinquente, è malato e andrebbe aiutato. Il carcere non era il suo posto, avrebbero dovuto capirlo fin da subito. Lì ci vanno i criminali, non le persone che hanno bisogno di aiuto». E aggiunge: «Mi avevano promesso che con la mia denuncia lo avrebbero potuto aiutare, ma invece si sono tolti un problema e mio figlio, e io stessa, siamo stati abbandonati per l’ennesima volta». La donna ringrazia il medico del carcere, ma racconta che non sempre ha trovato medici ben disposti nei suoi confronti: «Capisco che siano pochi, che si siano risorse limitate come spesso si dice, e forse ho insistito tanto anch’io nel chiedere di fare qualcosa per mio figlio, per farlo uscire dal carcere. Ma mi sono sentita dire anche questo, che la querela l’ho fatta io, come dire che se è in una cella è per colpa mia». E si commuove ancora, annullata da questo senso di colpa: «Ma mi avevano assicurato che era questo il modo per poter intervenire meglio, io mi sono fidata, ma dal momento dell’arresto la struttura psichiatrica territoriale che lo aveva in cura non ha fatto più nulla».
Il giudice nei giorni scorsi ha deciso per il trasferimento ad Arco, in psichiatria: «Nei primi giorni è stato legato al letto, dove ancora sono presenti le cinture di contenimento. Mi accorgo, durante i pochi minuti delle visite, che la sua mente si va sempre più deteriorando e ho paura che i danni della reclusione siano diventati irreversibili. Il mio è un pozzo di dolore senza fondo — afferma affranta — e se penso che mio figlio ha solo vent’anni non oso immaginarmi cosa potrà succedergli in futuro». Il futuro di un figlio malato che un genitore vorrebbe affidare a chi si prende cura di lui, in una comunità psichiatrica: «Ma non in un carcere, e nemmeno per l’intera vita in ospedale, legato a un letto quando attraversa le sue crisi». Più di tutto la madre vorrebbe una cosa: «Vederlo sorridere di nuovo. E per questo sorriso che ora non c’è più sono disposta a fare tutto».