l'intervista
mercoledì 24 Settembre, 2025
Del Soldà: «Gaza ha risvegliato le energie di chi lotta per i diritti umani. L’Italia ha ancora una coscienza»
di Simone Casciano
Il conduttore di «Tutta la città ne parla» su Radio3: «Per evolvere le piazze dovrebbero creare una rete europea»

Piazze che raccontano un’Italia che non ha paura, che scardina il paradigma individualista della contemporaneità in difesa di quei valori, i diritti umani, fondativi della nostra società. È questo quello che raccontano le manifestazioni di lunedì secondo Pietro Del Soldà. Il conduttore di «Tutta la città ne parla» su Radio3 ha un osservatorio privilegiato sull’Italia, che in parte gli aveva permesso di prepararsi a quella grande partecipazione che ha coinvolto tutta Italia, sorprendendo politici e osservatori meno attenti.
Del Soldà si aspettava questa partecipazione? E queste piazze che cosa ci dicono del momento storico che stiamo vivendo?
«Mi hanno in parte sorpreso e in parte no. Da tempo, anche attraverso le voci raccolte nel mio programma, emergeva un’opinione pubblica molto sensibile a ciò che accade a Gaza. C’è una divaricazione fortissima tra ciò che la gente comune percepisce – un genocidio riconosciuto anche dall’Onu – e il racconto ufficiale che riceve. Queste manifestazioni sono frutto di una mobilitazione dal basso, senza il traino delle grandi sigle sindacali o partitiche. Hanno saputo raccogliere la paura e la rabbia davanti non solo a una guerra e a una crisi umanitaria, ma anche a quella che molti percepiscono come la sconfitta dei valori della democrazia liberale, che l’Occidente dovrebbe incarnare. Questa è la prima guerra in cui i civili sono il principale obiettivo militare: persino durante le guerre mondiali le vittime civili, pur numerose, erano “collaterali”. Qui invece l’attacco è diretto, e se lo accettiamo, significa cancellare il diritto internazionale e i diritti umani, che sono l’architrave del mondo moderno. È paradossale che accada proprio in quella regione, visto che il diritto internazionale nasce dalla Shoah. La cosa significativa è che le persone questo lo hanno capito, forse più dei governi. Con poche eccezioni, come la Spagna, la maggior parte dei Paesi europei – Italia compresa – sta mostrando una grave ignavia, forse per timore di Trump, e questo accentua la crisi delle istituzioni. Il messaggio che arriva dalle piazze è chiaro: c’è uno scollamento tra politica, istituzioni e media, e dall’altra parte una partecipazione dal basso, fatta di cittadini che non si limitano a sfogarsi sui social ma scelgono di agire mossi da coscienza civile e da valori fondanti. Perché la libertà ha senso solo se non resta confinata nel proprio recinto».
Le manifestazioni hanno messo insieme mondi molto diversi — attivisti storici, giovani studenti, cittadini comuni, associazioni: che fotografia dell’Italia ha visto emergere?
«La fotografia è quella di un Paese che conserva ancora una coscienza politica, capace di andare oltre le appartenenze partitiche. Le piazze erano infatti molto composite: giovani, attivisti, cittadini comuni, associazioni. È la reazione del corpo sociale nel suo insieme. Questa è allo stesso tempo la sua forza e la sua debolezza: forza, perché mostra una vitalità civile che non si lascia anestetizzare; debolezza, perché è difficile incanalarla e trasformarla in proposta politica. Ma resta un campanello d’allarme per partiti e leader che fondano il loro consenso sulla gestione del presente. Certo, esistono differenze nella popolazione, ma su Gaza prevalgono paura e indignazione diffuse, che hanno accomunato sensibilità diverse».
La grande partecipazione è frutto di Gaza e della sua drammaticità unica o è replicabile per altri temi?
«Credo che sia Gaza a generare una partecipazione così ampia, per l’altissimo valore politico e per la drammaticità della situazione, che ci coinvolge direttamente. Per l’Ucraina c’è stata grande solidarietà, ma non la stessa mobilitazione. E ci sono crisi altrettanto gravi, penso al Sudan, che restano però in un cono d’ombra. Quello che accade in Medio Oriente, e in particolare a Gaza, è un fortissimo attivatore. E probabilmente lo sarebbe anche se i piani di Israele per la Cisgiordania andassero avanti: non è mai accaduto che un Paese democratico e alleato dell’Occidente intraprendesse azioni di questo tipo, a parte forse l’Iraq, che infatti fu al centro dell’ultima grande marcia per la pace in Italia. Dopo quella stagione sembrava che fosse finito lo spazio per le grandi manifestazioni di piazza. E invece oggi assistiamo a un ritorno, legato certo all’unicità della situazione e, soprattutto, all’unicità dell’attacco diretto a una popolazione civile».
Questa perdita di mediazione è un segnale di fragilità delle organizzazioni tradizionali o, al contrario, una ricchezza democratica che porta nuove forme di partecipazione?
«Direi entrambe le cose. Da un lato è la conferma della crisi dei partiti tradizionali e dei sindacati: basti pensare che uno sciopero indetto da una sigla minore ha avuto grande risalto, mentre quello della Cgil è passato quasi sotto silenzio. Dall’altro lato, però, è anche il segno di nuove forme di partecipazione: i social e la messaggistica rendono più facile organizzarsi e riempire una piazza. Naturalmente, trasformare una piazza in politica è un’altra cosa, molto più complessa».
Il rischio, come spesso accade, è che la spinta si esaurisca nel giro di poche settimane. Cosa serve perché invece diventi un percorso durevole?
«Non lo so. Mi auguro che non sia il perdurare della violenza a Gaza a tenere attive queste energie. Anzi spero che tutte queste voci vengano ascoltate e possano connettersi con altre voci europee, creando un sentire comune che oggi manca, sia a livello governativo sia nella cittadinanza. Bisogna andare oltre la scala nazionale nelle richieste e nelle ambizioni, sentirsi europei nelle proprie sensibilità civili. La vera sfida, per chi come me pone domande, è capire se questo tipo di partecipazione potrà mai essere intercettata da movimenti o partiti in grado di incanalarla e trasformarla in proposte concrete».
Queste piazze hanno un valore per il Paese? Parlano di un risveglio della coscienza civile?
«Certo, ha un grande valore. Soprattutto se lo si racconta nel contesto giusto: non concentrandosi sulla stazione di Milano, ma su quel poderoso movimento che ha attraversato 75 città senza incidenti. È un segnale di vitalità civile in un momento in cui sembravamo ripiegati su noi stessi, impauriti e disillusi… e invece no».