La lettera
lunedì 26 Maggio, 2025
Scuola, lo sfogo di una studentessa del Prati: «Tutti parlano, ma non ci ascoltano. Amiamo il nostro istituto ma siamo schiacciati dalle aspettative»
di Una studentessa del Prati
La lettera di una ragazza che racconta la quotidianità al tempo della società della performance. «La nostra realtà è fatta di voti che pesano come giudizi morali»

Pubblichiamo di seguito la lettera integrale inviata alla redazione de ilT Quotidiano da una studentessa del liceo «Prati di Trento».
Si parla spesso di scuola. Ne parlano i genitori, i ministri, i dirigenti. Chiunque si sente autorizzato a dire la sua sulla scuola, non importa quanto la si conosca o quanto si sia vicini o lontani da questa complessa realtà. Ma raramente si ascolta davvero la voce di chi la scuola la vive ogni giorno sulla propria pelle: la voce di noi studenti.
Recentemente si è parlato anche della mia scuola, il Liceo Prati. Tutti si sono sentiti in diritto di esprimere la loro opinione: la dirigente, gli insegnanti, persino un consigliere provinciale. Si è parlato di segnali di criticità rispetto alla gestione, di benessere degli studenti, di ispettori e di ispezioni apparentemente inaspettate. Nessuno però ha ritenuto necessario lasciare spazio anche a noi ragazzi, che a scuola ci andiamo tutti i giorni, che a scuola passiamo gran parte della nostra giornata.
Questa lettera non è una denuncia, né uno sfogo. È semplicemente un racconto. Il racconto di quello che succede tra i banchi, nei corridoi, nelle classi.
Il Prati è una scuola bellissima; si insegnano materie, come il greco, la letteratura, la storia, di cui io sono profondamente innamorata. È una scuola antichissima, che ha formato molte personalità che poi si sono distinte, come Cesare Battisti.
Il Prati è una scuola bellissima; gli studenti ridono, parlano, scherzano insieme, a volte anche con gli insegnanti, vivono a scuola importanti momenti della loro vita.
Il Prati è una scuola bellissima, ma dietro alle risate, al greco e al latino si nasconde una realtà tesa, fatta di aspettative schiaccianti, a volte anche di mancanza di umanità.
La nostra realtà è fatta di voti che pesano come giudizi morali, come se un numero sul registro potesse definire il nostro valore come persone. Se prendi 9, vali 9. Se prendi 6, sei appena sufficiente. Alcuni professori sembrano dimenticare che dietro ogni voto c’è un ragazzino, con le sue paure, i suoi limiti, la sua storia.
A volte pare che per alcuni insegnanti sia normale trattarci con durezza, quasi come se fosse previsto, come se la nostra condizione di studenti giustificasse tutto. Un giorno in classe un mio compagno si è sentito dire che sarebbe stato meglio se avesse cambiato scuola, tanto nessuno avrebbe notato la sua assenza. E questo è solo uno delle tante, tantissime mancanze di rispetto e umanità a cui abbiamo assistito. Ma come si può pensare che una frase del genere non lasci un segno profondo?
Molti di noi rinunciano a qualsiasi attività extra scolastica per far fronte a un carico di studio che divora ogni energia. Per alcuni insegnanti questa è la normalità, quasi un dovere: sacrificare tutto, in nome del rendimento. Ma il prezzo da pagare è alto, e lo paghiamo con l’ansia, con crisi di pianto, con quella sensazione costante di non essere mai abbastanza.
Al Prati è normale vedere studenti in lacrime nei corridoi, con il respiro affannoso, la testa bassa, spesso con le mani che tremano in modo incontrollato. Eppure tutto continua come se nulla fosse. Le interrogazioni non si fermano, le lezioni vanno avanti. Come se l’ansia, la fatica, la sofferenza non esistessero.
Ci sono professori che non si limitano a ignorare il nostro malessere, ma che addirittura lo sminuiscono. Ridono se facciamo domande, insinuano che vogliamo solo disturbare, che cerchiamo di far perdere tempo. Altri partono dal presupposto che siamo tutti svogliati, che non studiamo, che ci approfittiamo della loro “bontà”. A volte ci sentiamo sotto accusa, come se ogni gesto, ogni parola, dovesse essere giustificata.
E quando troviamo il coraggio per esporci e proviamo a difenderci da attacchi gratuiti – da insinuazioni, da commenti pungenti o da affermazioni che niente hanno a che fare con la didattica – veniamo accusati di essere insolenti. Di mancare di rispetto agli insegnanti. Eppure non si tratta di insolenza, ma di un bisogno legittimo di proteggere la nostra dignità. A volte basta poco: una domanda, una richiesta di chiarimento, persino un’espressione di disagio. E subito viene letta come una provocazione, come una sfida. Ma noi non vogliamo sfidare nessuno: vogliamo solo poterci difendere, far valere la nostra dignità, ed essere ascoltati quando alziamo la voce non per provocare, ma per farci rispettare.
Non voglio dire che tutti gli insegnanti siano così. Non è vero, e sarebbe ingiusto. Ma è vero che tutti gli studenti, almeno una volta, si sono sentiti trattati in questo modo. E questo basta per capire che qualcosa, da qualche parte, si è rotto. E che serve il coraggio – da parte degli adulti – per ammettere che il sistema non funziona e per cambiare.
Chiediamo solo una cosa: di essere ascoltati. Di essere visti. Di essere riconosciuti come persone, prima che come studenti. Perché anche se siamo giovani, anche se non abbiamo titoli o autorità, abbiamo una voce. E abbiamo qualcosa da dire.
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